giovedì 5 luglio 2007

Bastard Fairies, Memento Mori

I Bastard Fairies (Yellow Thunder Woman, voce, e Robin Davey, tutto il resto) sono abituati a stupire. Sono abituati a stupire con il loro diciottesimo posto nella classifica dei "Most subscribed Musician of All time". E sono abituati a farlo dall'alto del loro trentunesimo posto nella classifica dei video più visti di Youtube. Un Internet Phenomenon, a quanto pare, giustificato da buona musica e vivace creatività.

Nati nel 2003 a L.A. California, i Bastard Fairies fanno musica con il loro Mac, ed in ossequio al marketing web-based distribuiscono le dodici tracce del loro album d'esordio, “Memento Mori”, in download gratuito dal sito ufficiale, riservando quattro ulteriori canzoni per l'edizione in vendita nei negozi.
Ad un primo ascolto le dodici tracce possono suonare a metà tra un canto iconoclasta (se ne è mai esistito uno) e una raccolta di brani per ricordare quando i vostri figli prendevano parte a quelle assurde recite in terza elementare. Ad un secondo l'impressione resta la stessa, ma dal terzo in poi il disco comincia a girare per il verso giusto.
Perchè la voglia di stupire, come dicevo prima, c'è, ma non è così "facile" come potremmo pensare.
Perchè se in paradiso le unioni perfette sono quelle "senza concepimento", l'unico pass che vi chiederanno per entrarci sarà una lobotomia: The Greatest Love Song, traccia strumentale essenziale riempita nelle sue lacune dalla vocalità carezzevole dai Yellow Thunder Woman, ripete a più voci quanto una vasectomia ed una isterectomia possano portare alla felicità. Felicità? La ricetta per ottenerla sembra contenuta nella traccia successiva: sorridere sempre e comunque. Al di sopra della linea strumentale ridotta all'osso e poco più sviluppata dei semplici accordi, la voce della solista multiforme grazie al delicato uso di sintetizzatori, che ambigua ci invita a prendere una fetta della sua Apple pie, panacea per tutti i mali del cocktail party.
Non è una realtà dorata quella che i Bastard Fairies raccontano: Habitual Inmate, stesa su di un tappeto di tastiere, racconta del mondo paranoico, ma sempre splendente e confortevole, di una persona ossessionata dall'igiene. Con la stessa freschezza e facilità storie di tradimenti e di fiducia mal riposta sono narrate nella traccia successiva: la voce perennemente distorta confessa il suo tradimento con il ragazzo della porta accanto (The Boy Next Door), perchè il conto, si sa, si pagherà soltanto “alla fine”, “la vita è breve” e merita di essere vissuta. Per arrivare alla Ode to Prostitute il passo è decisamente breve: uno scatto del numero sul display e ci sentiamo raccontare della funzione sociale che svolge una prostituta, di come il suo business sia chiaro e senza indesiderati coinvolgimenti personali. Una visita dal dentista senza anestesia è, invece, We're All Going to Hell: se alla prostituta dobbiamo riconoscere un certo e utile status sociale, ora scopriamo che invariabilmente, qualunque sia il nostro credo o occupazione, finiremo tutti all'inferno, che è un posto di "fire and brimstone": per la prima traccia davvero completa i Bastard Fairies scelgono accenni di basso saturato e distorto, molto pop, a cui fanno da contrappunto note di sintetizzatore alte e cadenzate. Toccate per un attimo sonorità pop, ora l'album verte più semplicemente verso l'uso di chitarre acustiche e voci distorte come quelle che vi aspettereste provenire da una vecchia radio polverosa: Moribund e la title-track colpiscono per la loro durezza ed immediatezza, tanto che potrebbero essere tranquillamente inclusi in un album completamente diverso da quello che abbiamo sentito fino ad ora.
Indie-pop dunque? Se la critica ufficiale vuole che di ciò si tratti, come ogni etichetta questa è estremamente riduttiva e mortificante: se è indie lo è decisamente intelligente, smaliziato e diretto, e se è pop è di quello buono. Molto buono.

Da Musicboom.it

mercoledì 4 luglio 2007

B.R.M.C., Baby 81

Uno tsunami noise, stomp e r'n'r
di
Giulio Cisamolo

Che cosa è rimasto dei Black Rebel Motorcycle Club di una volta?Li abbiamo conosciuti con un album d'esordio, “B.R.M.C.” (2000), che aveva fruttato loro un contratto con la Virgin e lo schiamazzare di migliaia di fan grazie al sound piuttosto vintage, al noise preponderante e allo shoegaze che ne faceva roba da intellettuali.
Li abbiamo seguiti con “Take Them On, On Your Own” (2003), che non ci ha convinto più di tanto, forse perchè era scomparsa quella vena di psichedelia trascendentale per lasciare posto ad un rock nudo e crudo.
Li abbiamo premiati con la nostra fiducia sperando in “Howl” (2005), album in cui il gruppo, libero da vincoli discografici, ha virato al blues ed allo stomp.
Dunque cosa resta di loro? Restano i soliti tre ragazzi (Peter Hayes, voce, chitarra, armonica, basso, tastiere, autoharp, harmonium, Robert Turner, voce, basso, chitarra, tastiere, Nick Jago, batteria) che sanno ancora stupirci e che, giunti al quarto album, dimostrano di essere cresciuti. “Baby 81” colpisce a partire dal titolo: l’allusione è infatti al neonato sopravvissuto allo tsunami del 2005 e oggetto di contesa da parte di due famiglie sulle quali si era scatenato il circo mediatico statunitense.
Il noise degli esordi c'è ancora, come pure lo shoegaze, ma con parsimonia, non oscura niente e fa un bel contorno. Il rock polveroso che ce li lascia immaginare in sella ad Harley Davidson su strade deserte, sì, abbiamo pure quello. Ma più di tutti, la lezione del blues e dello stomp sembra essere stata imparata a dovere, tanto che quest'album risulta maturo ma sbarazzino allo stesso tempo, potente ma sobrio, folle ma incredibilmente misurato.
Se dovessimo trovare un brano legato agli esordi della band certamente sceglieremmo quello d'apertura, Took Out A Loan: il suono è di quelli buoni da garage, lo shoegaze resta ma condito da un po' di sano r&r. Se dovessimo raccontare invece di come sia ascoltare “Howl” prenderemmo a prestito 666 Conducer, il falsetto di Killing The Light, e la conclusiva Am I Only, con le rispettive atmosfere meditative e la nuvoletta di fumo che si alza leggera nella stanza: l'esperienza del lavoro precedente sembra essere stata messa completamente a frutto, portando la band a comporre impegnative ballate folk.
Resta da parlare di brani come Berlin, Weapon Of Choice (primo singolo estratto) e Need Some Air. Sapete che vi dico? Non ve ne parlo affatto. Me ne vado di là a cantarli a squarciagola.
L'unica mancanza che non sentiremo sarà quella per il parallelo “B.R.M.C. - Jesus and Mary Chain”; bollati dalla critica sin dagli esordi come un gruppo clone di quello più famoso scozzese, hanno faticato molto perchè le loro sonorità noise venissero considerate “altro” rispetto a quelle di William e Jim Reid. Il sound ora è più meditato: l'attitudine shoegaze rimane, ma mediata da un ferreo credo nel rock'n'roll come non se ne fa più da tempo e dall'attitudine soul dimostrata con l'album precedente.
L'album della maturità, potremmo già chiamarlo, se non fossimo sicuri che con il prossimo sapranno stupirci nuovamente.

Da Musicboom.it

domenica 17 giugno 2007

Paprika - Sognando un sogno di Kon Satoshi

In Giappone è stato inventato un nuovo modo per fare psicoterapia. Uno scienziato, tanto geniale quanto infantile e tendente alla pinguedine, ha costruito una macchina in grado di mostrare i sogni ed anche di condividerli. L’invenzione in questione, battezata PT, viene sottratta da qualcuno interno al laboratorio. Le indagini vengono condotte dall’avvenente dottoressa Atsuki Chiba, il cui alter ego onirico, che possiede tutte le caratteristiche di personalità che Atsuki non ha (simpatia, gioa, amore per la vita) porta il nome di Paprika.

Paprika, coadiuvata da un detective della polizia, in cura sperimentale con PT e coinvolto suo malgrado nelle indagini, scopre una cosa potenzialmente terribile: il PT si comporta come un’allergia e una mente umana, una volta che è venuta in contatto con PT, può essere violata dalla macchina che fa entrare nei sogni anche quando il soggetto è sveglio e non è collegato all’apparecchiatura. Si rischia quindi che chiunque possa entrare nei sogni di chiunque, manipolandoli ed influenzando in questo modo la vita reale. Paprika-Atsuki ed il poliziotto dovranno salvare l’umanità da questa terribile prospettiva, e contemporaneamente proteggere se stessi dai propri sogni.

Kon Satoshi, già autore del natalizio film d’animazione Tokio Godfathers, si addentra in un campo tanto interessante quanto difficile da maneggiare. Ne viene fuori un film incredibilmente affascinante nella prima parte, in cui il regista ci introduce al miracolo di PT e possiamo sbirciare nei sogni altrui; la seconda parte perde di mordente, scema per il continuo accumulo di elementi nell’intreccio, che né aiutano lo spettatore nella fruizione, né aiutano il film, appesantendolo di molto. Resta comunque il merito di aver parlato in modo originale del sogno, del suo rapporto col reale, della sottile linea di divisione che separa questi due mondi, l’uno delle tenebre l’altro della luce.

E resta anche il fatto che l’ambito toccato, il sogno, è da sempre uno di quelli che più hanno affascinato l’uomo sia a livello filosofico che psicologico. Satoshi si diverte ad esplorare questo mondo, e la prima parte riflette questa sua gaiezza. Le immagini perdono di consequenzialità, assumono una propria inesplicabile logica nel susseguirsi l’un l’altra; i colori sono squillanti, i suoni cacofonici ed accavallati, i dialoghi degni del miglior artista surreale. Lo spettatore è ipnotizzato dalle scene dei sogni, da queste parate di personaggi inesistenti, e vorrebe poter non tornare mai indietro. Ed ecco che Satoshi ci avvisa che è proprio questo il più grande problema dei sogni: non vorrebbe mai, per nessun motivo al mondo, tornare indietro.


Titolo originale: Paprika

Nazione: Giappone

Anno: 2006

Genere: Animazioni

Durata: 90’

Regia: Kon Satoshi

Sito ufficiale:

Cast:

Produzione: Mad House Ltd.

Distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia

Data di uscita: Venezia 2006



da www.nonsolocinema.com

martedì 22 maggio 2007

Good Charlotte, Good Morning Revival

Prendete cinque ragazzi un po' bellocci, ma state attenti che due di questi abbiano un background strappalacrime da rinfacciare ad una società insensibile. Associateli ad un grande e smaliziato produttore, e firmate per loro un contratto per il disco d'esordio. Aspettate qualche anno e lasciate passare qualche producer: cavalcheranno il successo del primo album anche per i successivi. Fateli poi tornare con il produttore dell'esordio... et voilà, successo assicurato.

E' bastato tornare nelle sapienti mani di Don Gilmore (produttore di "Good Charlotte", 2000) perchè la band, repentinamente e senza troppi ripensamenti, si trovasse nuovamente a suonare quel rock un po' melodico che ce li aveva fatti conoscere con il loro primo album.
A quanto dicono le nutrite schiere di fan dei gemelli Madden, "Good Morning Revival" è l'ennesimo e insuperabile successo di una band (Joel e Benji Madden, il chitarrista Billy Martin, il bassista Paul Thomas e il batterista Dean Butterworth) che aspetta fuori dalla R'n'R Hall of Fame l'orario di apertura, ma, se guardassimo meglio il successo della band, ci verrebbe il lecito dubbio che quest'ultimo si riduca a strategie di marketing ben pianificate e ancor meglio attuate: un ascolto facile per motivetti destinati a rimanere soltanto per il tempo dell'esecuzione, in cui la fanno da padrona componenti scenografiche (se possiamo ravvisarle in una traccia audio) e ospitate TV.
Un intero album segnato da un orecchiabile pop-rock, nel quale i legami con il passato, come dicevamo, sono ben individuabili: al pop-punk (sempre negato, del resto, dai già citati frontman) si sostituisce oggi un rock stucchevole, venato di rap, grunge e post-grunge, che ottiene l'ammirevole risultato di portare a compimento un album per il quale è davvero difficile, una volta terminato l'ascolto, trovarsi a canticchiare almeno uno dei pezzi. Nessuna traccia bandiera, quindi, non fosse per l'heavy rotation di Keep Your Hands Off My Girl, canzone in cui sono ben ravvisabili influenze Prodigy e Beastie Boys da non prendere troppo sul serio grazie ai coretti in contrappunto che le circondano.
L'album si dipana, veloce, tra le diverse contaminazioni che spolverano le tracce: debitore di una tradizione punk "classica", ad esempio, è The River (feat. M. Shadows e Synyster Gates degli Avengend Sevenfold, band emo-metal core californiana), giocato sull'alternarsi delle voci e sulla batteria ossessivamente costante, nel quale dovrebbe riversarsi l'ammirazione per gli inossidabili Clash dichiarata dai gemelli. Segnato da un pesante uso di sintetizzatori è Break Apart Her Heart, frutto delle influenze rap. Passionali e più "rock" sono pezzi come Victim Of Love, contraddistinta dagli strumenti distorti, e Where Would We Be Now, questa volta in semi acustico, per un pezzo alquanto melenso ed esemplare del rock quando sa essere appiccicoso.
Un album grazie al quale i Good Charlotte promettono di saper cavalcare ancora una volta l'onda del successo, grazie ad uno stile orecchiabile per un ascolto tutto sommato semplice, al contrario di quanto potrebbe sembrare, destinato e progettato per l'impatto sul grande pubblico.

mercoledì 16 maggio 2007

Bryan Ferry, Dylanesque

Se domani mattina il maestro Dylan dovesse svegliarsi e decidesse di re-incidere alcuni dei suoi pezzi più famosi, molto probabilmente registrerebbe un disco con un mood come questo.

Bryan Ferry torna alla sua grande passione, quella delle cover, decidendo di omaggiare il cantautore per eccellenza della storia americana. Se oggi riusciamo a guardare ad un album interamente composto da cover senza inorridire, sicuramente lo dobbiamo al coraggio e all’intraprendenza di Ferry nei primi anni settanta: già mentre si esibisce con i Roxy Music, pubblica infatti rifacimenti di pezzi di Dylan (A Hard Rain’s A-Gonna Fall, contenuta nell’album “These Foolish Things, 1973).
Il progetto “Dylanesque”, come sostiene lo stesso Ferry, nasce molto lontano: la tentazione di un album interamente votato a Dylan c'era già da parecchi anni, e lo testimoniano i frequenti tributi al maestro, segnati dalle influenze del periodo in cui sono interpretati; tuttavia il progetto era troppo ambizioso, o per lo meno così è sembrato sino al 2007, quando Bryan è finalmente entrato in studio e ne è uscito tenendo tra le mani questo CD.
Un album che raccoglie le pietre miliari della musica che siamo abituati a sentire passare nelle radio tra i pezzi oldies: undici tracce, ognuna delle quali meriterebbe un paragrafo a parte. Se ricordiamo le canzoni del Menestrello per le melodie spoglie ed essenziali, in questi nuovi arrangiamenti troviamo riff solidi e ben torniti da un impiego massiccio di chitarre e tastiere; ciò si avverte in tracce come The Times They’re A-changin’: originariamente contenuta nell’album omonimo, alla povertà della registrazione di Dylan (un solo di chitarra e armonica) Ferry risponde con un pesante uso di tastiere e sintetizzatori. Anche un pezzo come Knockin’ On Heaven’s Door non esce indenne dagli arrangiamenti dell’ex Roxy Music, che risolleva il pezzo dall’atmosfera greve e pesante, per un ascolto decisamente più easy. A chiudere l'album un pezzo eseguito anche da Jimi Hendrix: All Along the Watchtower; forse una delle registrazioni sulle quali Ferry si è più lasciato andare discostandosi dall'originale, ma che probabilmente risente in maniera massiccia dei rifacimenti subiti.
Proseguendo nell'attività che conosce bene, mentre canta queste canzoni Bryan Ferry non si lascia ammaliare dal cantautore Dylan, cercando una interpretazione il più personale possibile, raggiunta con gli arrangiamenti del tutto innovativi rispetto alle forme originali; dal sentimento originale passiamo così quasi al soul di colore, carico di emozioni e vibrante di sentimento.
Anche se non eravate proprio entusiasti della voce di Ferry nei Roxy Music, questo album merita certamente un posto nella vostra collezione. Non fosse altro che raccoglie tutta la passione e l'ammirazione per il cantautore, Mr. Bob Dylan.

lunedì 30 aprile 2007

Fred Anderson and Hamid Drake, From the River to the Ocean

Se il moderno jazz statunitense potesse parlare, molto probabilmente spenderebbe un paio di parole di ringraziamento per queste due leggende viventi dell'improvisazione


Fred Anderson and Hamid Drake

From the River to the Ocean

(Cd, Thrill Jockey, 2007)

jazz

8/10


Fred Anderson ed Hamid Drake, entrambi cresciuti nelle strade di Chicago, città molto più famosa per la House of Blues che per la Velvet Lounge, sono tornati con un album, From the River to the Ocean, che li vede collaborare per la seconda volta dopo Back Together Again, datato 2004.

Sassofonista tenore provetto, Anderson si fa le ossa suonando con pezzi grossi del jazz statunitense del calibro di Billy Brumfield (celeberrimo trombettista) e Joseph Jarman, con il quale collabora per la realizzazione di "As If It Were the Season" ("Little fox Run", contenuta nell'album , è frutto della scrittura di Anderson), fino ad arrivare a fondare la AACM (Associazione per lo Sviluppo della Musica Creativa, http://aacmchicago.org/) e ad aprire la Velvet Lounge, una vetrina dalla quale gli artisti dell'associazione possono sperimentare liberamente la loro creatività.

Percussionista venerato, Hamid Drake nel corso degli anni ha a sua volta legato il nome alle collaborazioni, oltre che con Fred Anderson, con William Parker, bassista della Big Apple, con David Murray, con Adam Rudolph, con Bretzmann e con Vandemark, tanto da trascorrere molto più tempo sul tour bous che nella sua villa a Chicago.

Se eravamo rimasti favorevolmente impressionati dal primo album in cui comparivano insieme, non possiamo che notare quanto la loro alchimia si sia accresciuta, quanto la loro intesa, che sembrava già allora perfetta, sia migliorata ulteriormente. Raccolto al loro seguito un gruppo di musicisti provenienti come loro da Chicago (Jeff Parker, chitarra, Harrison Bankhead, violoncello, e Josh Abrams, al basso e al guimbiri), la coppia è entrata negli John McEntire's Soma Studios per uscirne con un album che oseremmo già definire come il migliore dell'intera produzione dei due, non fosse altro che potremmo, a questo punto, aspettarci una nuova sorpresa dall'ennesimo album ci auguriamo venga prodotto dal duo.

From the River to the Ocean esplora un amplissimo range di possibilità espressive che Anderson e Drake si riservano: si spazia, infatti, dal classico blues di Strut Time ad una traccia più spirituale e meditativa come può essere For Brother Thompson, dedicata al trombettista Thompson, mentre From River to the Ocean e Sakti/Shiva vedono il bassista Johs Abrams alle prese con il guimbri, un basso a tre corde della tradizione africana e Drake con i ritmi tribali africani e americani, caricandoli delle sue conoscenze su quelli caraibici.

Nonostante il lungo tempo di ascolto che queste tracce esigono quello che abbiamo per le mani è un album veramente piacevole, aperto ad un ascolto semplice per i meno preparati sul genere, che però riserva alcune complesse sorprese per chi le sappia sentire; l'ennesima prova che la buona musica non è rimasta nei solchi di un vinile, ma che grazie ad alcuni coraggiosi continua a vivere, anche rinchiusa in un freddo iPod.

Da www.rockshock.it

domenica 29 aprile 2007

Sakebi-Retribution di Kurosawa Kiyoshi

Yoshioka, detective della omicidi di Tokio, viene assegnato ad un caso in cui la vittima è una donna affogata in mare. Le indagini ristagnano quando, a distanza di pochi giorni, viene trovato morto un giovane studente di liceo, anch’egli affogato in acqua di mare. Gli indizi portano tutti verso il padre, che confessa l’omicidio del figlio ma non quello precedente della donna. In più l’uomo sembra aver perso il senno: si sente minacciato da una donna vestita di rosso che solo lui riesce a vedere.

Dopo pochi giorni avviene un altro omicidio. Stesso modus operandi, diverso colpevole; questa volta, infatti, si tratta di una donna che ha affogato il borioso amante. Yoshioka non riesce a trovare un fil rouge che unisca questi tre casi, fin quando non comincia anche lui a vedere la donna in rosso; questa, occhi vitrei e pelle bianchissima, appare urlando ed accusando il detective. In Yoshioka si insinua il tarlo del dubbio: che sia stato proprio lui ad affogare quelle tre persone per poi rimuovere il tutto?
I nodi vengono al pettine quando l’eroe comincia ad indagare sullo spettro rosso, in base ai pochi elementi da lui stesso forniti. Lo scopre essere lo spirito vendicativo di una donna abbandonata dai cari in un edificio in rovina situato in un porto di Tokio; lo spirito entra nel corpo delle persone, trasferendo loro i propri sentimenti di solitudine e rabbia, e spingendoli ad affogare quelle persone dalle quali sono trattate male. Una volta fatta luce sul mistero lo spirito si quieta, e le sue ossa posso tornare alla terra. Yoshioka ottiene il perdono dalla donna senza pace, ma a quale prezzo? Ricordare tutto ciò che egli aveva rimosso.

Kurosawa, archiviato Loft, ennesimo bel capitolo horror della sua carriera, sforna questo lavoro quanto meno particolare. Quello che per la prima ora sembra un mediocre poliziesco, improvvisamente si tramuta in un mediocre horror. La parte del film che segue i canoni del thriller poliziesco risulta troppo lenta e senza sbocchi precisi. La parte horror aggiunge molta confusione, con un climax caotico finale, che guasta la visione.
Detto questo va dato a Kiyoshi quel che è di Kiyoshi: la messa in scena del veterano nipponico è sempre eccelsa, la regia attenta e bella da guardare, il montaggio interno esteticamente superiore alla media e la fotografia attenta come non mai. I problemi, come si è detto, restano tutti impigliati nella sceneggiatura e nello sviluppo narrativo.


Titolo originale: Sakebi
Nazione: Giappone
Anno: 2006 Durata: 103’
Regia: Kiyoshi Kurosawa
Sito ufficiale:
Cast: Kôji Yakusho, Manami Konishi, Hiroyuki Hirayama, Joe Odagiri
Produzione: Oz Co Ltd
Distribuzione: Mikado
Data di uscita: Venezia 2006

da www.nonsolocinema.com

L'Estate Di Mio Fratello di Piero Reggiani

Verona, 1970. Il piccolo Sergio non si trova bene nel mondo e preferisce restare da solo a fantasticare. Quando i suoi genitori, durante un’estate trascorsa in campagna, gli dicono che presto avrà un fratellino, comincia a pensare la sua vita con lui e finisce per immaginare di bruciarlo vivo su una graticola. Qualche giorno dopo la madre ha un aborto ed il piccolo Sergio si trova ad affrontare le sue grandi colpe.

Pietro Reggiani, figlio del grande critico Stefano, presenta, come lui stesso ammette, per l’ennesima volta al pubblico questo suo bel lavoro. Non si tratta infatti di una prima quella di ieri in un piccolo cinema di Verona; infatti dal 2003, anno in cui è stato girato il finale del film quando tutto il resto del girato risale al 1998, Reggiani ed i suoi ormai non più tanto piccoli attori hanno frequentato l’ambiente dei piccoli festival italiani, vincendo il Bergamo Film Meeting, ed approdando a New York, dove il Tribeca di Bob De Niro ha consegnato a questa pellicola il secondo premio.
Risulta molto sconsolante constatare come questo lavoro, alla ricerca di una distribuzione da ormai quasi tre anni, non riesca a trovare nessuno disposto a lanciarlo sul mercato. Eppure, pur essendo un film a bassissimo costo (girato in pellicola, costato 200.000 euro, un’inezia), questo ha tutta l’aria di un lavoro decisamente notevole. Narrativamente supremo, questo film riesce a descrivere la vicenda di questo bambino che dà pieno spazio alla propria fantasia, non le pone limiti. Reggiani quindi confonde, sovrappone, commistiona, giustappone i due piani della realtà e dell’immaginazione di Sergio che alla fine, per forza di cose, diventeranno tutt’uno. Assolutamente da non perdere, anche se purtroppo effettivamente si perderanno, le molte scene in cui il bimbo, sguinzagliando tutto il proprio potere immaginifico, cambia la realtà, la trasforma in qualcosa d’altro, in qualcosa di onirico, ironico e certamente più vivibile.
Altro grande elemento caratterizzante il film è lo splendido paesaggio della Lessinia; la scena dell’inseguimento di Sergio al fratellino immaginario ricorda molto, per l’utilizzo degli spazi aperti e dei campi lunghi e lunghissimi, il grande John Ford. Per concludere con un velo di sottilissima polemica: questo è un film ambientato negli anni ’70 ma non è un film sugli anni ’70; questa assenza di ammiccamenti, questo lirismo e questo aver preferito Vivaldi, Litsz e Mozart nella colonna sonora rispetto a qualche hit del tempo, questa volontà insomma di non inserirsi in quest’ultimo filone di cinema italiano frivolo e di successo al botteghino è probabilmente uno dei principali motivi della finora mancata distribuzione. Sinceramente, per il cinema e per lo spirito che anima, o dovrebbe animare la settima arte, va bene così.


Regia: Pietro Reggiani
Interpreti: Davide Veronese, Tommaso Ferro, Maria Paiato, Pietro Contempo
Sceneggiatura: Pietro Reggiani
Fotografia: Luca Coassin, Werther Germondari
Montaggio: Valentina Girodo, Alessandro Corradi
Produzione: Antonio Ciano per Nuvola Film
Durata: 81 minuti

da www.nonsolocinema.com

mercoledì 25 aprile 2007

Abash, Madri senza Terra

Dal 2000 scuotono le radici della tradizione popolare salentina: continuano a farlo anche oggi, ma con un piede in terra d'Africa e i polmoni pieni del profumo mediorientale.

Gli Abash (Anna Rita Luceri, voce, Maurilio Gigante, basso e voce, Luciano Treggiari, percussioni, flauto, theremin, hang, Luciano Toma, tastiere, Paolo Colazzo, batteria, e Daniele Stefano, chitarre), capogruppo della rinata attenzione della critica musicale per la musica etno-popolare salentina, nascono nel 1998 e portano a compimento nel 2000 la loro prima opera, Salentu e Africa.
Firmato Maurilio Gigante, nel pezzo che dà il nome all'album potremmo sentire il leitmotiv di una vita trascorsa nel Salento: terra di confine, passaggio ed invasione (tre sostantivi che significano la stessa cosa; contaminazione) tra la Penisola e i vicini territori africani ed arabi, influisce sul gruppo portandolo a coltivare un eclettico prog-rock arricchito dalla salsedine del mare Mediterraneo, dalla sabbia del deserto africano e dalle spezie del vicino oriente.

Se non mancano gli spazi dedicati alla sperimentazione e al culto del virtuosismo e della tecnica pura, tuttavia questi stessi sono calati in un hic et nunc che vena ogni traccia come fosse gelato all'amarena.

E' stato così per Spine e Malelingue (2204) secondo album della formazione, è così per Madri Senza Terra, terza fatica del gruppo del giugno 2006.
Undici tracce, la cui apertura è affidata a Niuru te Core, un monologo che profuma di sabbia e sudore, in cui a confrontarsi sono due voci, una ebraica a scandire le parole di una cantilena, e una (lo scopriremo più avanti nell'album) italiana ma salentina.

L'intero album, dopotutto, è giocato sul doppio e sul contrappunto: in alcuni casi sono due voci che si rincorrono nell'epico duello maschile/femminile (Salentu e Africa, successo dal primo album), in altri sono due idiomi a contendersi una linea di voce (Maràn Athà), in altri ancora (Madri senza Terra) sono chitarre dure e solide che sembrano non voler cedere terreno ai lirismi di una solista che non demorde, tra spruzzi come acqua sugli scogli di sintetizzatori (che piacere sentire utilizzato ancora una volta un theremin) e pause delicate.

Un ottimo album, segno di un'Italia musicale in fermento, capace di guardare al di là del panorama nazionale, pur rimanendo con il cuore saldo al caldo sole della Puglia.

Da www.rockshock.it

lunedì 9 aprile 2007

Wilco, Sky Blue Sky

Nati dallo scioglimento dei cugini di campagna Uncle Tolpedo, dal 1994 i Wilco si sono contraddistinti per la ferrea volontà di innovazione e sperimentazione, spaziando dal country al rock 'n' roll, dal prog al noise

(Cd, Nonesuch, 2007)

indie, country

7/10


Se con album come A.M. (1995) eravamo costretti ad ammettere che l'influenza alternative country era indiscutibilmente presente, via via che Jeff Tweedy e soci pubblicavano tracce ci siamo trovati a fare i conti con una realtà varia e multiforme: senza dimenticare ogni volta la lezione della fatica precedente, ci hanno stupito con album come Summerteeth (1999), votato al rock Velvet Underground-style, o Yankee Hotel Foxtrot (2002), le cui vaghe (molto vaghe, a dir la verità) sonorità noise hanno portato una ventata di aria fresca per la band e tra le schiere di fan. Tuttavia, con Sky Blue Sky torna a farsi sentire l'ingombrante eredità dei primi anni novanta e delle esperienze country. Dunque, un ritorno dopo la promettente parentesi in senso sperimentale dei dischi precedenti: ampie ed assolate spianate sonore e non sulle quali il gruppo traccia leggere melodie, armonie velate di country e sintetizzatori appena accennati; così l'album si muove tra generi diversi, indie, country, folk, leggero e studiato sin nei minimi dettagli allo stesso tempo, frutto di una mente geniale in grado di spaziare in forme e dimensioni nuove.


L'apertura dell'album è affidata a Either Way, dolce e delicata ballata, forse un poco melensa ma decisamente gradevole con la spruzzata di sintetizzatori in cima; l'atmosfera cambia repentinamente con You Are My Face, seconda traccia, dai toni più cupi, leggermente power rock, specialmente nel segmento centrale, segnato da chitarre tese più che altro a saturare l'intera banda. Se cercate una traccia “bandiera” dell'album penso la possiate trovare in Impossible Germany: le atmosfere troverete negli altri pezzi ci sono tutte, un po' indie ed un po' country quanto basta. A dare nome all'album è la quarta traccia, un pezzo acustico chitarra e
batteria da ascoltare seduti in riva ad un fosso di emiliana memoria. Degne di nota Walken, in cui un trascinante piano scorta l'ascoltatore dalla prima all'ultima nota, e On and On and On, nella quale gli strumenti si fanno temporaneamente da parte per lasciare spazio ad un fraseggio assolutamente brillante della voce.

Un ottimo album, come d'altronde potevamo aspettarci dalla factory Jeff & soci; se speravate in qualcosa di nuovo, in quest'album troverete sì qualcosa di fresco, ma non come sareste portati a credere; nuovo country, folk innovativo, geniale indie.

Da: www.rockshock.it

giovedì 5 aprile 2007

I racconti di Terramare di Goro Miyazaki

Earthsea, terra di maghi e di dragoni, sta poco a poco perdendo il suo Equilibrio. I draghi combattono fra loro, il bestiame si ammala, le messi si guastano, e gli esseri umani stanno a guardare. La colpa è da attribuire a Cob, malvagio mago che, vista la morte troppo da vicino, e deciso ad evitarla a tutti costi, cerca in tutti i modi di trovare il segreto della vita eterna. Questa manifesta volontà di andare contro natura fa rivoltare la Terra nostra Madre contro la metastasi umana.

Ged, meglio noto come Sparviero, di professione Arcimago, vagabonda per le terra di Earthsea alla ricerca di una risposta a tutto ciò che sta accadendo. Sulla strada trova Arren, giovane principe parricida, in fuga dalla città natale con la spada magica della sua famiglia; il ragazzo sembra appartenere all’oscurità, i suoi occhi sono tristi e malinconici, ma dove c’è oscurità c’è il sole, e l’ombra della luce che l’ha abbandonato lo segue ovunque vada. Quando Cob esce allo scoperto con i suoi diabolici piani, l’unica soluzione per Sparviero, Aren e Therren, scontrosa e spaurita ragazza salvata dalle grinfie dei negrieri dal giovane principe, è di affrontare il malvagio negromante in uno scontro frontale.

Risulta terribilmente difficile giudicare l’operato cinematografico del figlio di uno dei più grandi filmmaker contemporanei, ma è esattamente ciò che andiamo a fare.

Una quantità eccezionale di carne al fuoco caratterizza questa splendida opera prima. Goro insiste con tenacia e passionalità su un tema tanto vasto quanto fondamentale: non c’è vita senza morte, bisogna quindi accettare l’esistenza della nera signora, e vivere l’unica vita che ci spetta appieno, per non dover fronteggiare alla fine dei nostri giorni remore o rimpianti; per fare ciò è necessario non avere paura della morte, anche se certo, un po’ di timore reverenziale è più che consigliabile, ma sopra tutto e tutti non avere paura della vita. Solo chi ha paura della vita cerca la chimera della vita eterna; vita eterna è uguale assenza di morte che è uguale ad assenza di vita. Non c’è Ying senza Yang, non luce senza tenebra, non c’è donna senza uomo, non c’è vita senza morte.

Un film di straordinaria fattura, oltre che di straordinario spunto, grazie al supporto dell’infallibile Studio Ghibli che, altro che Pixar, non ne sbaglia veramente una. Goro, esordiente assoluto, dimostra di saperci fare specialmente a livello narrativo. Centellina le informazioni su questa terra sconosciuta, incuriosendo lo spettatore man mano che il film prosegue. Lo incatena alla poltrona in un finale, è finalmente ora di dirlo, degno del padre. Caratterizza con maestria il personaggio di Arren, il più profondo e sfaccettato con la sua dicotomia che si risolve anche a livello grafico. A livello tecnico una scena su tutte merita menzione: la soggettiva finale sul volo in picchiata del drago che, pur durando pochi secondi, fa accaponare la pelle.



Titolo originale: Gedo Senki
Nazione: Giappone
Anno: 2006
Genere: Animazione
Durata: 115’
Regia: Goro Miyazaki
Sito ufficiale: www.ghibli.jp/ged
Produzione: Studio Ghibli
Distribuzione: Buena Vista International, NTV, Studio Ghibli, Toho Company Ltd
Data di uscita: Venezia 2006

Da www.nonsolocinema.com

mercoledì 4 aprile 2007

The Melvins, (A) Senile Animal

Un duo che però è un trio, formato da almeno una decina di persone. Il duo è quello di Buzz Osborne (voce e chitarra) e Dale Crover (batteria). Ci sarebbe pure un Jaden Warren al basso (il trio), ma non fateci troppo caso, i bassisti nei The Melvins non durano di solito più di un lustro (le restanti sette persone). Aggiungete ai tre eccezionalmente una seconda batteria (dietro la quale sta seduto Coady Willis) e sarete pronti per ascoltare “(A) Senile Animal”.

Nati nel 1986, influenzati dal hard core punk, dal metal di Ozzy, contaminatori del grunge di Seattle e dei Nirvana, dopo 20 anni di attività e di rispettabile sludge metal, i The Melvins mi fanno gridare al desert-rock dei Kyuss, e al loro compatto e secco muro di chitarre.
Secondo parte della critica “(A) Senile Animal” è il disco che annuncia in pompa magna il ritorno della band dal lontano “Bullhead” (1991); secondo altri, e il sottoscritto sottoscrive, con questo album i Melvins arrivano a qualcosa di nuovo, diverso dallo sludge per il quale sono celebri e dalle indigeste sperimentazioni noise o doom. La compattezza del suono è la stessa, paurosamente solida e regolare, ma si sente qualcosa mancare al di là di questo “muro”; le tracce potrebbero essere prese tranquillamente da un “Ozma” (1989) o da un “Houdini” (1993), ma mancano di mordente, forse un po' troppo “pettinate” dagli anni trascorsi. La voglia di innovare, caratteristica endemica della band tuttavia non viene meno: le voci ora si alternano (grazie a Warren, ex Karp e Tight Bros From Way Back When), mentre la batteria si sdoppia con la comparsata di Willis, già The Murder City Devils.
L'album si apre con The Talking Horse, un pugno allo stomaco di basso distorto e variazioni sul tema. Più compassato e regolare, invece, segue Blood Witch, in cui ci accorgiamo che le batterie sono due, per lo più in sincrono perfetto, che si fanno scorgere in piccoli squarci durante la traccia. Dalla prosa di decisamente più ampio respiro è invece Civilized Worm, energia lisergica o acido energico, a Voi l'ardua sentenza: come le due batterie ora anche le voci vanno di pari passo, raddoppiando l'impatto e l'esplosione al suolo, fino a culminare nell'assolo caotico e irregolare che conclude il brano. Insieme a quest'ultima The Hawk è la traccia bandiera di “(A) Senile Animal”: basso energico ed imprevedibile, batterie che contraggono matrimonio, chitarra importante ma non predominante, voci che ora si alternano ora si raddoppiano.
Se stavate aspettando questo album non abbiate timore, le vostre speranze non saranno disattese: energia pura allo stato fonico. Se invece ora siete curiosi di sentire questo cd avvertite i vicini deboli di cuore, non potrete fare a meno di alzare al massimo il volume del vostro stereo.

Da www.musicboom.it

Eragon di Stefen Fangmeier

Giusto per sottolineare che questo schifo di film alla fine l'ho recensito per davvero. ;)



Eragon è un diciassettenne orfano; vive con lo zio ed il cugino Roran ai margini di Carvahall, piccolo villaggio ai confini del vasto impero di Alagaesia. Tutto sembra scorrere liscio, almeno fino a quando Eragon, a caccia di cervi, non rinviene una strana pietra blu che scoprirà, alla sua schiusura, essere l’uovo dell’ultimo drago, o meglio dragonessa, rimasto. Il malvagio re di Alagaesia, nonchè ultimo cavaliere dei draghi vivente, nonchè assassino di tutti gli altri cavalieri, venuto a conoscenza della nascita della dragonessa Saphira sguinzaglierà sulle traccie di Eragon il terribile Durza, potentissimo stregone nero. L’unica via di scampo per il giovane sarà seguire Brom, cavaliere in pensione, in una folle fuga verso il rifugio dei Varden, i ribelli dell’impero.

Anno di grazia 2002, un noto giallista americano, Carl Hiaasen, accontenta il figlioletto e legge l’opera di un quindicenne del Montana, autoprodotta e autodistribuita in cinquecento copie dai genitori dello stesso. Lo scrittore, rimasto folgorato dal lavoro dell’adolescente, al secolo Christopher Paolini, convincerà il suo editore a farlo pubblicare. La stampa mondiale, non credendo ai propri occhi e a tanta grazia, non poteva lasciarsi sfuggire la storia di un quindicenne al top delle classifiche di vendita mondiali, e lo ha reso l’evento mediatico dell’anno. Neanche a Hollywood sembrava vero, e la Fox si è accaparrata i diritti del libro.

Ora, Eragon, inteso come libro, è palesemente il lavoro di un gran lettore di fantasy, collezione di citazioni più o meno vaghe dai capisaldi del genere. Giova ricordare che è anche l’opera di un quindicenne, con tutti i pregi e i difetti derivanti dall’avere quell’età: passione, tanto cuore, ma anche ingenuità e inesperienza. Dunque questo è l’Eragon cartaceo: adolescenziale, ma non per questo privo di fascino e di un incipiente afflato epico che caratterizza i migliori lavori del genere fantasy.

L’Eragon di celluloide, quindi, raccoglie suo malgrado l’eredità di instabilità della versione cartacea, tentando di volgere a proprio favore i difetti del libro. Per fare ciò si munisce di un cast di tutto rispetto (Jeremy Irons, Robert Carlyle, John Malkovich e la voce di Rachel Weisz) e di un dispiego di forze ingenti per quanto riguarda l’area effetti speciali. Purtroppo quasi mai il valore del totale è eguale alla somma del valore dei singoli coinvolti; il film non convince neanche per un momento. La messa in scena del poco conosciuto Stefen Fangmeier privilegia la spettacolarità e l’azione, concentrando 583 pagine di libro in poco meno di un’ora e quaranta di pellicola, tarpando così le ali al passo da grande storia epica che caratterizza il libro. Fengmeier tenta di trasmetterlo, senza riuscirci, con poche e mal riuscite scene girate con un ampio dolly nella natura più selvaggia.

Ci pensa poi la distribuzione italiana a piazzare l’ultimo chiodo sulla bara di questo film poco riuscito, affidando il doppiaggio della dragonessa Saphira alla, e non ce ne voglia, non professionista Ilaria D’Amico. Il risultato è pessimo e ci fa pensare: la versione originale è doppiata da Rachel Weisz, ottima attrice, fresca di Academy Award, mentre quella italiana è affidata ad una nota giornalista sportiva, bravissima in quello che fa, ma non certamente un’attrice. Cos’abbiamo fatto, quindi, per meritarci una così bassa considerazione da parte della distribuzione? Siamo un così cattivo pubblico? Ai posteri l’ardua, ma neanche poi tanto, sentenza.


Titolo originale: Eragon
Nazione: U.S.A.
Anno: 2006
Genere: Avventura, Fantastico
Durata: 104’
Regia: Stefen Fangmeier
Sito ufficiale: www.eragonmovie.com
Cast: Jeremy Irons, John Malkovich, Edward Speleers, Djimon Hounsou, Robert Carlyle, Alun Armstrong
Produzione: 20th Century Fox, Ingenious Film Partners
Distribuzione: 20th Century Fox
Data di uscita: 22 Dicenbre 2006 (cinema)


Da www.nonsolocinema.com

Ralfe Band, Swords

Swords, album d'esordio del trio britannico Ralfe Band, porta il folk europeo a nuovi livelli di sperimentazione vintage, tracciando un solco nella musica contemporanea occidentale.

(Cd, Skint Records, 2007)

nu-folk

8/10


Sentire un frontman parlare di quanto la sua band sia influenzata da Dylan, Waits, Sate, Beck o Captain Beefheart non mi fa guardare con troppa fiducia a chi ha pronunciato certe parole. Ma dopo aver ascoltato Swords, album dell'esordiente Ralfe Band, mi sono dovuto ricredere.

Oly Ralfe, Andrew Mitchell e John Greswell compongono la Ralfe Band, big thing londinese grazie ai singoli Albatross Walze e Fifteen Hundred Years che hanno preceduto l'uscita dell'album d'esordio. La critica ha atteso il trio sin dal 2004, anno della prima apparizione pubblica, e nel 2005, firmato un contratto con la Skint Records (la stessa etichetta, tanto per intenderci, di Fatboy Slim e Lo Fidelity All Stars), la prima opera della band ripaga dell'attesa scontata. Le speranze prodotte da questo trio non si sono rivelate semplici illusioni con l'album seguente, Woman of Japan; distribuito nell'aprile 2006, anche il secondo album prosegue sulla scia un po' visionaria ed un po' cantautorale della Band, concedendo spazio a nuove sperimentazioni dal sapore dannatamente vintage.

Costringere in una etichetta un album (ma soprattutto una band) del genere è un po' come cercare di capovolgere velocemente un barattolo pieno di marmellata: puoi essere bravo finché vuoi, ma qualcosa fuori ci scapperà sempre. L'etichetta più comprensiva, nonostante questo, è quella di album nu-folk: le parole sono le stesse del folk vecchia maniera (certo, sentire miscelati quello americano e quello dell'est europeo fa correre un brivido lungo la schiena), ma se tra un accordion ed una viola ci scappa un sintetizzatore i linguaggi sono decisamente moderni. Come dicevamo, un limite del genere non è sufficiente per una band di tale caratura: le atmosfere suscitate vanno al di là del semplice folk, e svelano quale attenzione sia stata dedicata ad una scrittura musicale semplice ma di grande effetto, mosaico di colori ed emozioni. Molto spesso mondi agresti, come esigerebbe la tradizione, ma in continuo movimento, in perpetue involuzioni e rivoluzioni, oggetto di spasmi creativi violenti ed improvvisi. In brani ad ampio respiro come Albatross Walze, un folk in tre quarti in cui la Ralfe Band riesce ad infilare suoni di giocattoli (marchio di fabbrica del gruppo) e chitarre elettriche, o Crow troviamo quelle influenze che Oly imputa all'est europeo. In altri, come Parkbench Blues, a farla da padrona sono le atmosfere, le ambientazioni, create da un'assoluta armonia di strumenti e voce, oppure, in tracce come Bruno Mindhorn, più serrate e veloci, è l'uso di sintetizzatori a tessere le trame del pezzo.

Un ottimo album d'esordio, quindi, per un trio che si è fatto attendere ed ha saputo farsi desiderare, una ventata d'aria fresca sulla scena britannica ed europea. Un'opera godibilissima e frutto di un sapiente lavoro di scrittura e di cesello per una band che di sicuro saprà (e già lo sta facendo) far parlare di sé.

Di Giulio Cisamolo

Still Life di Jia Zhang-Ke

VIA DEL GRANITO N°5

Han Sanming compie in nave tutto il viaggio dal Shanxi fino a Fengjie con il solo scopo di ritrovare la figlia che non ha mai visto. L’unico indizio che ha è un pacchetto di sigarette Mango con scritto l’indirizzo della sua ex moglie, la Via del Granito n°5 del sottotitolo. Comincia così il suo peregrinare per la città. Shen Hong è un infermiera della regione dello Shanxi, sposata ad un ingegnere che lavora a Fengjie e che la donna non vede da due anni; con l’aiuto di un vecchio amico del marito riuscirà a rivedere lo stesso, e ad annunciargli la propria decisione a proposito del loro matrimonio.

Han scopre che Via del Granito è stata sommersa dall’acqua nella prima fase di costruzione della diga. Quindi, dovendo prolungare più del previsto la sua ricerca, per riuscire a pagarsi il soggiorno a Fengjie in attesa di trovare moglie e figlia, inizia a lavorare come demolitore; armati di martelli da fabbro, gli operai fanno letteralmente a pezzi quegli edifici che sono stati sfollati perchè saranno sommersi dalle acque imprigionate dalla mastodontica diga delle Tre Gole.
Shen, mano a mano che prosegue con le ricerche, scopre gli altarini del marito, ingegnere a capo del progetto di demolizione della parte della città che verrà sommersa, e viene fuori che il fedifrago la tradisce da molto tempo col suo capo.

Come nelle scatole cinesi, Jia scopre di volta in volta le sue carte; viene fuori che Han è stato abbandonato da una moglie che aveva comprato per 3000 yuan, dopo essere stato scoperto dalle autorità. In Cina infatti, specialmente nelle regioni povere, le donne in eccesso (per così dire), vengono vendute al migliore offerente. Nonostante ciò Han è un marito di molto migliore rispetto a quello di Shen Hong e il finale della sua storia renderà giustizia alla sua bontà, mentre Shen darà il benservito al compagno. Il marito illegittimo ma buono viene perdonato, il marito leggittimo ma fedifrago viene punito.

Jia, primo regista ad avere a Venezia due film, l’uno, Dong, nella categoria Orizzonti questo invece in concorso, prosegue il suo discorso sullo stato della Cina attuale, e lo fa inserendolo nella cornice di due tenere quanto tristi storie d’amore, accomunate dal luogo di svolgimento, la città di Fengjie, più di duemila anni di storia sommersi dalle acque raccolte da un’immane diga.
Jia Zhang-Ke, a Venezia in concorso due anni fa col poco riuscito Shijie, è il secondo regista indipendente per importanza in Cina, dietro all’indiscusso campione e precursore Zhang Juan. Il suo è un cinema fatto di silenzi e di aridità emotiva. Questo lavoro è peculiare in tal senso: sembra che nello stesso modo in cui la città è stata sommersa dall’acqua, così anche il calore dei suoi abitanti è stato ricoperto da strati e strati di progresso. Il tono di critica di Jia è sottile e sussurrato, niente a che vedere con urla sbraitate ed insulti; anche per questo opta per tenere la critica sulla sfondo di due storie d’amore. Questa scelta regala al film più livelli di interpretazione, e regala allo spettatore occidentale un tipo di fruizione più agevole rispetto al puro film di denuncia.

Da ricordare almeno due scene. Nella prima, una Shen Hong pensierosa volge lo sguardo verso lo stupendo panorama delle Tre Gole deturpato da una torre in cemento armato; come a rispondere ai desideri della ragazza, l’orribile torre decolla come farebbe uno shuttle a Cape Canaveral, restituendo agli occhi ed all’anima lo splendido panorama. Nella seconda, Han Sanming, conclusa la sua ricerca, sta per tornare alla miniere della natia Shanxi; sullo sfondo un operaio equilibrista passa da un edificio in demolizione all’altro camminando su un filo sospeso nel vuoto. Jia ci regala questa brillante metafora della Cina del 2006, paese che sta in equilibrio tra antico e moderno, tra conservazione del paesaggio e sviluppo tecnologico. Proprio come un equilibrista, il confine tra il restare in equilibrio e il cadere è molto labile.
Menzione speciale per le sequenze, nella parte centrale del film, che ritraggono la stupenda valle delle Tre Gole. Il regista tratta questi paesaggi quasi con timore reverenziale e con grande rispetto. Il risultato mozza il fiato in gola.

Sanxia haoren (Still Life)
Titolo originale: Sanxia haoren
Nazione: Cina
Anno: 2006
Genere: Documentario
Durata:
Regia: Jia Zhang-Ke


Da www.nonsolocinema.com

Ted Leo & the Pharmacists, Living with the Living

I Ted Leo & The Pharmacists sono una band indie-punk, nata nel 1999 a Washington, District of Columbia, i cui componenti ad oggi provengono un po' da tutto il nord statunitense. Strano, davvero strano, per un album che ti fa sentire come fosse già luglio, il sole a picco e la spiaggia piena di ragazze.

Giunti al loro quinto album, i Ted consolidano la loro fama: band politicamente schierata, ora che l'etichetta è cambiata (Touch 'n' Go Records, dopo la Lookout!, dichiaratasi fallita nel 2006) si spingono ancora più nei territori in fermento dell'indie statunitense, prodotti questa volta da Brendan Canty dei Fugazi. Non estranei ad una certa voglia di sperimentazioni, Ted Leo (voce, chitarra), Dave Lerner (basso), Chris Wilson (batteria) e James Canty (chitarra) con questo album ci vanno piano, rallentano sino a rasentare quasi il pop, per riuscire a risollevarsi con esplosioni di energia indie-punk a brevi tratti.

Come dicevamo, più che da Washington la band sembra provenire da qualche cartolina californiana: di punk ne è rimasto relativamente poco, coperto dalle chitarre acustiche (quelle giuste per cuccare sulla spiaggia) e dai coretti di Leo. L'apertura dell'album è affidata ad una breve overture di batteria e registrazioni campionate, Fourth World War, che dovrebbe in poco più di trenta secondi prepararci a quello che andiamo ad ascoltare. Dopo un preludio così carico ci troviamo di fronte a Son of Cain; l'impegno politico nelle parole è grande, ma le atmosfere da ballata sono troppo vicine per poterci far sperare di trovare qualcosa di anche lontanamente simile ai buoni vecchi Clash. L'andazzo continua, con punte come Who do You Love, brani in cui non possiamo proprio dire sia vivo o redivivo lo spirito punk.
Vere oasi nel buonismo musicale di un tal album sono pezzi come Bomb. Repeat. Bomb. o Annunciation Day/Born on Christmas Day, in cui rabbia e amplificatori esplodono sotto i colpi violenti della voce di Leo. L'opera si sciorina tra tracce reggae-punk (The Unwanted Things) e rock anni '70 (The Lost Brigade), per concludersi finalmente con un brano impegnato: C.I.A.

Se stavate aspettando un album carico di energia contestatrice sono spiacente di deludervi; il cd è un ottimo prodotto, suona bene, ma forse un po' troppo teso al nouveau mainstream indie per essere definito punk. All'ambiente urbano si sostituisce la spiaggia, e alle Convers la ciabattina infradito.

lunedì 2 aprile 2007

Cale & Clapton: una coppia che vale più di un poker

Cosa succede quando due chitarre che hanno scritto la storia del blues si incontrano? Semplice: producono un gran bel disco. Dopo oltre trent’anni passati a guardarsi con la coda dell'occhio e ad essere fonte di ispirazione l'uno per l'altro, J.J. Cale ed Eric Clapton decidono finalmente di collaborare ad un album, “Road to Escondido”, dedicato alla memoria di Billy Preston e di Brian Roylance, amici intimi di Clapton.

Apprezzavamo Clapton quando, con i nostri baffoni anni settanta, lo ascoltavamo con gli Yardbirds (in realtà solo nel primo album: mollò il gruppo quando il successo era appena all'orizzonte). Lo abbiamo seguito negli anni con i Cream prima, con i Blind Faith e i Derek & The Dominos poi. Sconosciuto invece ai più, complice una decisa misantropia, Cale è stato reso famoso da alcuni rifacimenti di pezzi da lui composti: “After Midnight” e “Cocaine” sono i brani che hanno lanciato al grande pubblico il talento solista di Clapton, il quale, a sua volta, ha mostrato a molti l'attività del bluesman Cale, quarant’ anni di musica per soli tredici album che però valgono tutto il tempo atteso per la pubblicazione.

Qui, nel loro incontro fatto di quattordici tracce di pura emozione i due ripercorrono la storia del blues-rock spaziando agilmente dalle ballate che vi aspettereste di sentire in un polveroso saloon di provincia (Dead End Road) ai ritmi più lounge che il blues possa permettersi (Sporting Life). Reduce dall'insuccesso di “Back Home”, Clapton non rinuncia ad un blues piuttosto easy, appiattito sui gusti del pubblico, e nemmeno l'incontro con il grande vecchio Cale e il suo inconfondibile Tulsa-sound lo redime da questo peccato, se così lo vogliamo considerare. Tracce come Missing Person potrebbero così suonare un poco vuote, ma la perfezione tecnica e l'intesa eccezionale fanno, nonostante tutto, battere il piede e fischiettare il motivetto.
Strabiliante, allo stesso modo, il risultato che i bluesmen riescono a raggiungere duettando nel corso dell'album: in tracce come Heads in Georgia o So Easy due voci così idiosincratiche trovano un'esatta, inimmaginabile intesa, quasi ad abbracciarsi in un vortice melodico che però non snatura le rispettive personalità. Insomma: disco assai valido, certo non rivoluzionario, ma frutto di un incontro che più di così non poteva dirsi così fortunato.

Giulio Cisamolo

Da MusicBoom.it