Da Musicboom.it
giovedì 5 luglio 2007
Bastard Fairies, Memento Mori
mercoledì 4 luglio 2007
B.R.M.C., Baby 81
Uno tsunami noise, stomp e r'n'r
di
Giulio Cisamolo
Da Musicboom.it
domenica 17 giugno 2007
Paprika - Sognando un sogno di Kon Satoshi
Paprika, coadiuvata da un detective della polizia, in cura sperimentale con PT e coinvolto suo malgrado nelle indagini, scopre una cosa potenzialmente terribile: il PT si comporta come un’allergia e una mente umana, una volta che è venuta in contatto con PT, può essere violata dalla macchina che fa entrare nei sogni anche quando il soggetto è sveglio e non è collegato all’apparecchiatura. Si rischia quindi che chiunque possa entrare nei sogni di chiunque, manipolandoli ed influenzando in questo modo la vita reale. Paprika-Atsuki ed il poliziotto dovranno salvare l’umanità da questa terribile prospettiva, e contemporaneamente proteggere se stessi dai propri sogni.
Kon Satoshi, già autore del natalizio film d’animazione Tokio Godfathers, si addentra in un campo tanto interessante quanto difficile da maneggiare. Ne viene fuori un film incredibilmente affascinante nella prima parte, in cui il regista ci introduce al miracolo di PT e possiamo sbirciare nei sogni altrui; la seconda parte perde di mordente, scema per il continuo accumulo di elementi nell’intreccio, che né aiutano lo spettatore nella fruizione, né aiutano il film, appesantendolo di molto. Resta comunque il merito di aver parlato in modo originale del sogno, del suo rapporto col reale, della sottile linea di divisione che separa questi due mondi, l’uno delle tenebre l’altro della luce.
E resta anche il fatto che l’ambito toccato, il sogno, è da sempre uno di quelli che più hanno affascinato l’uomo sia a livello filosofico che psicologico. Satoshi si diverte ad esplorare questo mondo, e la prima parte riflette questa sua gaiezza. Le immagini perdono di consequenzialità, assumono una propria inesplicabile logica nel susseguirsi l’un l’altra; i colori sono squillanti, i suoni cacofonici ed accavallati, i dialoghi degni del miglior artista surreale. Lo spettatore è ipnotizzato dalle scene dei sogni, da queste parate di personaggi inesistenti, e vorrebe poter non tornare mai indietro. Ed ecco che Satoshi ci avvisa che è proprio questo il più grande problema dei sogni: non vorrebbe mai, per nessun motivo al mondo, tornare indietro.
Titolo originale: Paprika
Nazione: Giappone
Anno: 2006
Genere: Animazioni
Durata: 90’
Regia: Kon Satoshi
Sito ufficiale:
Cast:
Produzione: Mad House Ltd.
Distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia
Data di uscita: Venezia 2006
da www.nonsolocinema.com
martedì 22 maggio 2007
Good Charlotte, Good Morning Revival
mercoledì 16 maggio 2007
Bryan Ferry, Dylanesque
lunedì 30 aprile 2007
Fred Anderson and Hamid Drake, From the River to the Ocean
Fred Anderson and Hamid Drake
From the River to the Ocean
(Cd, Thrill Jockey, 2007)
jazz
8/10
Fred Anderson ed Hamid Drake, entrambi cresciuti nelle strade di Chicago, città molto più famosa per la House of Blues che per la Velvet Lounge, sono tornati con un album, From the River to the Ocean, che li vede collaborare per la seconda volta dopo Back Together Again, datato 2004.
Sassofonista tenore provetto, Anderson si fa le ossa suonando con pezzi grossi del jazz statunitense del calibro di Billy Brumfield (celeberrimo trombettista) e Joseph Jarman, con il quale collabora per la realizzazione di "As If It Were the Season" ("Little fox Run", contenuta nell'album , è frutto della scrittura di Anderson), fino ad arrivare a fondare la AACM (Associazione per lo Sviluppo della Musica Creativa, http://aacmchicago.org/) e ad aprire la Velvet Lounge, una vetrina dalla quale gli artisti dell'associazione possono sperimentare liberamente la loro creatività.
Percussionista venerato, Hamid Drake nel corso degli anni ha a sua volta legato il nome alle collaborazioni, oltre che con Fred Anderson, con William Parker, bassista della Big Apple, con David Murray, con Adam Rudolph, con Bretzmann e con Vandemark, tanto da trascorrere molto più tempo sul tour bous che nella sua villa a Chicago.
Se eravamo rimasti favorevolmente impressionati dal primo album in cui comparivano insieme, non possiamo che notare quanto la loro alchimia si sia accresciuta, quanto la loro intesa, che sembrava già allora perfetta, sia migliorata ulteriormente. Raccolto al loro seguito un gruppo di musicisti provenienti come loro da Chicago (Jeff Parker, chitarra, Harrison Bankhead, violoncello, e Josh Abrams, al basso e al guimbiri), la coppia è entrata negli John McEntire's Soma Studios per uscirne con un album che oseremmo già definire come il migliore dell'intera produzione dei due, non fosse altro che potremmo, a questo punto, aspettarci una nuova sorpresa dall'ennesimo album ci auguriamo venga prodotto dal duo.
From the River to the Ocean esplora un amplissimo range di possibilità espressive che Anderson e Drake si riservano: si spazia, infatti, dal classico blues di Strut Time ad una traccia più spirituale e meditativa come può essere For Brother Thompson, dedicata al trombettista Thompson, mentre From River to the Ocean e Sakti/Shiva vedono il bassista Johs Abrams alle prese con il guimbri, un basso a tre corde della tradizione africana e Drake con i ritmi tribali africani e americani, caricandoli delle sue conoscenze su quelli caraibici.
Nonostante il lungo tempo di ascolto che queste tracce esigono quello che abbiamo per le mani è un album veramente piacevole, aperto ad un ascolto semplice per i meno preparati sul genere, che però riserva alcune complesse sorprese per chi le sappia sentire; l'ennesima prova che la buona musica non è rimasta nei solchi di un vinile, ma che grazie ad alcuni coraggiosi continua a vivere, anche rinchiusa in un freddo iPod.
Da www.rockshock.it
domenica 29 aprile 2007
Sakebi-Retribution di Kurosawa Kiyoshi
Dopo pochi giorni avviene un altro omicidio. Stesso modus operandi, diverso colpevole; questa volta, infatti, si tratta di una donna che ha affogato il borioso amante. Yoshioka non riesce a trovare un fil rouge che unisca questi tre casi, fin quando non comincia anche lui a vedere la donna in rosso; questa, occhi vitrei e pelle bianchissima, appare urlando ed accusando il detective. In Yoshioka si insinua il tarlo del dubbio: che sia stato proprio lui ad affogare quelle tre persone per poi rimuovere il tutto?
I nodi vengono al pettine quando l’eroe comincia ad indagare sullo spettro rosso, in base ai pochi elementi da lui stesso forniti. Lo scopre essere lo spirito vendicativo di una donna abbandonata dai cari in un edificio in rovina situato in un porto di Tokio; lo spirito entra nel corpo delle persone, trasferendo loro i propri sentimenti di solitudine e rabbia, e spingendoli ad affogare quelle persone dalle quali sono trattate male. Una volta fatta luce sul mistero lo spirito si quieta, e le sue ossa posso tornare alla terra. Yoshioka ottiene il perdono dalla donna senza pace, ma a quale prezzo? Ricordare tutto ciò che egli aveva rimosso.
Kurosawa, archiviato Loft, ennesimo bel capitolo horror della sua carriera, sforna questo lavoro quanto meno particolare. Quello che per la prima ora sembra un mediocre poliziesco, improvvisamente si tramuta in un mediocre horror. La parte del film che segue i canoni del thriller poliziesco risulta troppo lenta e senza sbocchi precisi. La parte horror aggiunge molta confusione, con un climax caotico finale, che guasta la visione.
Detto questo va dato a Kiyoshi quel che è di Kiyoshi: la messa in scena del veterano nipponico è sempre eccelsa, la regia attenta e bella da guardare, il montaggio interno esteticamente superiore alla media e la fotografia attenta come non mai. I problemi, come si è detto, restano tutti impigliati nella sceneggiatura e nello sviluppo narrativo.
Titolo originale: Sakebi
Nazione: Giappone
Anno: 2006 Durata: 103’
Regia: Kiyoshi Kurosawa
Sito ufficiale:
Cast: Kôji Yakusho, Manami Konishi, Hiroyuki Hirayama, Joe Odagiri
Produzione: Oz Co Ltd
Distribuzione: Mikado
Data di uscita: Venezia 2006
da www.nonsolocinema.com
L'Estate Di Mio Fratello di Piero Reggiani
Verona, 1970. Il piccolo Sergio non si trova bene nel mondo e preferisce restare da solo a fantasticare. Quando i suoi genitori, durante un’estate trascorsa in campagna, gli dicono che presto avrà un fratellino, comincia a pensare la sua vita con lui e finisce per immaginare di bruciarlo vivo su una graticola. Qualche giorno dopo la madre ha un aborto ed il piccolo Sergio si trova ad affrontare le sue grandi colpe.
Pietro Reggiani, figlio del grande critico Stefano, presenta, come lui stesso ammette, per l’ennesima volta al pubblico questo suo bel lavoro. Non si tratta infatti di una prima quella di ieri in un piccolo cinema di Verona; infatti dal 2003, anno in cui è stato girato il finale del film quando tutto il resto del girato risale al 1998, Reggiani ed i suoi ormai non più tanto piccoli attori hanno frequentato l’ambiente dei piccoli festival italiani, vincendo il Bergamo Film Meeting, ed approdando a New York, dove il Tribeca di Bob De Niro ha consegnato a questa pellicola il secondo premio.
Risulta molto sconsolante constatare come questo lavoro, alla ricerca di una distribuzione da ormai quasi tre anni, non riesca a trovare nessuno disposto a lanciarlo sul mercato. Eppure, pur essendo un film a bassissimo costo (girato in pellicola, costato 200.000 euro, un’inezia), questo ha tutta l’aria di un lavoro decisamente notevole. Narrativamente supremo, questo film riesce a descrivere la vicenda di questo bambino che dà pieno spazio alla propria fantasia, non le pone limiti. Reggiani quindi confonde, sovrappone, commistiona, giustappone i due piani della realtà e dell’immaginazione di Sergio che alla fine, per forza di cose, diventeranno tutt’uno. Assolutamente da non perdere, anche se purtroppo effettivamente si perderanno, le molte scene in cui il bimbo, sguinzagliando tutto il proprio potere immaginifico, cambia la realtà, la trasforma in qualcosa d’altro, in qualcosa di onirico, ironico e certamente più vivibile.
Altro grande elemento caratterizzante il film è lo splendido paesaggio della Lessinia; la scena dell’inseguimento di Sergio al fratellino immaginario ricorda molto, per l’utilizzo degli spazi aperti e dei campi lunghi e lunghissimi, il grande John Ford. Per concludere con un velo di sottilissima polemica: questo è un film ambientato negli anni ’70 ma non è un film sugli anni ’70; questa assenza di ammiccamenti, questo lirismo e questo aver preferito Vivaldi, Litsz e Mozart nella colonna sonora rispetto a qualche hit del tempo, questa volontà insomma di non inserirsi in quest’ultimo filone di cinema italiano frivolo e di successo al botteghino è probabilmente uno dei principali motivi della finora mancata distribuzione. Sinceramente, per il cinema e per lo spirito che anima, o dovrebbe animare la settima arte, va bene così.
Regia: Pietro Reggiani
Interpreti: Davide Veronese, Tommaso Ferro, Maria Paiato, Pietro Contempo
Sceneggiatura: Pietro Reggiani
Fotografia: Luca Coassin, Werther Germondari
Montaggio: Valentina Girodo, Alessandro Corradi
Produzione: Antonio Ciano per Nuvola Film
Durata: 81 minuti
da www.nonsolocinema.com
mercoledì 25 aprile 2007
Abash, Madri senza Terra
Gli Abash (Anna Rita Luceri, voce, Maurilio Gigante, basso e voce, Luciano Treggiari, percussioni, flauto, theremin, hang, Luciano Toma, tastiere, Paolo Colazzo, batteria, e Daniele Stefano, chitarre), capogruppo della rinata attenzione della critica musicale per la musica etno-popolare salentina, nascono nel 1998 e portano a compimento nel 2000 la loro prima opera, Salentu e Africa.
Firmato Maurilio Gigante, nel pezzo che dà il nome all'album potremmo sentire il leitmotiv di una vita trascorsa nel Salento: terra di confine, passaggio ed invasione (tre sostantivi che significano la stessa cosa; contaminazione) tra la Penisola e i vicini territori africani ed arabi, influisce sul gruppo portandolo a coltivare un eclettico prog-rock arricchito dalla salsedine del mare Mediterraneo, dalla sabbia del deserto africano e dalle spezie del vicino oriente.
Se non mancano gli spazi dedicati alla sperimentazione e al culto del virtuosismo e della tecnica pura, tuttavia questi stessi sono calati in un hic et nunc che vena ogni traccia come fosse gelato all'amarena.
E' stato così per Spine e Malelingue (2204) secondo album della formazione, è così per Madri Senza Terra, terza fatica del gruppo del giugno 2006.
Undici tracce, la cui apertura è affidata a Niuru te Core, un monologo che profuma di sabbia e sudore, in cui a confrontarsi sono due voci, una ebraica a scandire le parole di una cantilena, e una (lo scopriremo più avanti nell'album) italiana ma salentina.
L'intero album, dopotutto, è giocato sul doppio e sul contrappunto: in alcuni casi sono due voci che si rincorrono nell'epico duello maschile/femminile (Salentu e Africa, successo dal primo album), in altri sono due idiomi a contendersi una linea di voce (Maràn Athà), in altri ancora (Madri senza Terra) sono chitarre dure e solide che sembrano non voler cedere terreno ai lirismi di una solista che non demorde, tra spruzzi come acqua sugli scogli di sintetizzatori (che piacere sentire utilizzato ancora una volta un theremin) e pause delicate.
Un ottimo album, segno di un'Italia musicale in fermento, capace di guardare al di là del panorama nazionale, pur rimanendo con il cuore saldo al caldo sole della Puglia.
Da www.rockshock.it
lunedì 9 aprile 2007
Wilco, Sky Blue Sky
(Cd, Nonesuch, 2007)
indie, country
7/10
L'apertura dell'album è affidata a Either Way, dolce e delicata ballata, forse un poco melensa ma decisamente gradevole con la spruzzata di sintetizzatori in cima; l'atmosfera cambia repentinamente con You Are My Face, seconda traccia, dai toni più cupi, leggermente power rock, specialmente nel segmento centrale, segnato da chitarre tese più che altro a saturare l'intera banda. Se cercate una traccia “bandiera” dell'album penso la possiate trovare in Impossible Germany: le atmosfere troverete negli altri pezzi ci sono tutte, un po' indie ed un po' country quanto basta. A dare nome all'album è la quarta traccia, un pezzo acustico chitarra e
Un ottimo album, come d'altronde potevamo aspettarci dalla factory Jeff & soci; se speravate in qualcosa di nuovo, in quest'album troverete sì qualcosa di fresco, ma non come sareste portati a credere; nuovo country, folk innovativo, geniale indie.
Da: www.rockshock.it
giovedì 5 aprile 2007
I racconti di Terramare di Goro Miyazaki
Ged, meglio noto come Sparviero, di professione Arcimago, vagabonda per le terra di Earthsea alla ricerca di una risposta a tutto ciò che sta accadendo. Sulla strada trova Arren, giovane principe parricida, in fuga dalla città natale con la spada magica della sua famiglia; il ragazzo sembra appartenere all’oscurità, i suoi occhi sono tristi e malinconici, ma dove c’è oscurità c’è il sole, e l’ombra della luce che l’ha abbandonato lo segue ovunque vada. Quando Cob esce allo scoperto con i suoi diabolici piani, l’unica soluzione per Sparviero, Aren e Therren, scontrosa e spaurita ragazza salvata dalle grinfie dei negrieri dal giovane principe, è di affrontare il malvagio negromante in uno scontro frontale.
Risulta terribilmente difficile giudicare l’operato cinematografico del figlio di uno dei più grandi filmmaker contemporanei, ma è esattamente ciò che andiamo a fare.
Una quantità eccezionale di carne al fuoco caratterizza questa splendida opera prima. Goro insiste con tenacia e passionalità su un tema tanto vasto quanto fondamentale: non c’è vita senza morte, bisogna quindi accettare l’esistenza della nera signora, e vivere l’unica vita che ci spetta appieno, per non dover fronteggiare alla fine dei nostri giorni remore o rimpianti; per fare ciò è necessario non avere paura della morte, anche se certo, un po’ di timore reverenziale è più che consigliabile, ma sopra tutto e tutti non avere paura della vita. Solo chi ha paura della vita cerca la chimera della vita eterna; vita eterna è uguale assenza di morte che è uguale ad assenza di vita. Non c’è Ying senza Yang, non luce senza tenebra, non c’è donna senza uomo, non c’è vita senza morte.
Un film di straordinaria fattura, oltre che di straordinario spunto, grazie al supporto dell’infallibile Studio Ghibli che, altro che Pixar, non ne sbaglia veramente una. Goro, esordiente assoluto, dimostra di saperci fare specialmente a livello narrativo. Centellina le informazioni su questa terra sconosciuta, incuriosendo lo spettatore man mano che il film prosegue. Lo incatena alla poltrona in un finale, è finalmente ora di dirlo, degno del padre. Caratterizza con maestria il personaggio di Arren, il più profondo e sfaccettato con la sua dicotomia che si risolve anche a livello grafico. A livello tecnico una scena su tutte merita menzione: la soggettiva finale sul volo in picchiata del drago che, pur durando pochi secondi, fa accaponare la pelle.
Titolo originale: Gedo Senki
Nazione: Giappone
Anno: 2006
Genere: Animazione
Durata: 115’
Regia: Goro Miyazaki
Sito ufficiale: www.ghibli.jp/ged
Produzione: Studio Ghibli
Distribuzione: Buena Vista International, NTV, Studio Ghibli, Toho Company Ltd
Data di uscita: Venezia 2006
Da www.nonsolocinema.com
mercoledì 4 aprile 2007
The Melvins, (A) Senile Animal
Da www.musicboom.it
Eragon di Stefen Fangmeier
Eragon è un diciassettenne orfano; vive con lo zio ed il cugino Roran ai margini di Carvahall, piccolo villaggio ai confini del vasto impero di Alagaesia. Tutto sembra scorrere liscio, almeno fino a quando Eragon, a caccia di cervi, non rinviene una strana pietra blu che scoprirà, alla sua schiusura, essere l’uovo dell’ultimo drago, o meglio dragonessa, rimasto. Il malvagio re di Alagaesia, nonchè ultimo cavaliere dei draghi vivente, nonchè assassino di tutti gli altri cavalieri, venuto a conoscenza della nascita della dragonessa Saphira sguinzaglierà sulle traccie di Eragon il terribile Durza, potentissimo stregone nero. L’unica via di scampo per il giovane sarà seguire Brom, cavaliere in pensione, in una folle fuga verso il rifugio dei Varden, i ribelli dell’impero.
Anno di grazia 2002, un noto giallista americano, Carl Hiaasen, accontenta il figlioletto e legge l’opera di un quindicenne del Montana, autoprodotta e autodistribuita in cinquecento copie dai genitori dello stesso. Lo scrittore, rimasto folgorato dal lavoro dell’adolescente, al secolo Christopher Paolini, convincerà il suo editore a farlo pubblicare. La stampa mondiale, non credendo ai propri occhi e a tanta grazia, non poteva lasciarsi sfuggire la storia di un quindicenne al top delle classifiche di vendita mondiali, e lo ha reso l’evento mediatico dell’anno. Neanche a Hollywood sembrava vero, e la Fox si è accaparrata i diritti del libro.
Ora, Eragon, inteso come libro, è palesemente il lavoro di un gran lettore di fantasy, collezione di citazioni più o meno vaghe dai capisaldi del genere. Giova ricordare che è anche l’opera di un quindicenne, con tutti i pregi e i difetti derivanti dall’avere quell’età: passione, tanto cuore, ma anche ingenuità e inesperienza. Dunque questo è l’Eragon cartaceo: adolescenziale, ma non per questo privo di fascino e di un incipiente afflato epico che caratterizza i migliori lavori del genere fantasy.
L’Eragon di celluloide, quindi, raccoglie suo malgrado l’eredità di instabilità della versione cartacea, tentando di volgere a proprio favore i difetti del libro. Per fare ciò si munisce di un cast di tutto rispetto (Jeremy Irons, Robert Carlyle, John Malkovich e la voce di Rachel Weisz) e di un dispiego di forze ingenti per quanto riguarda l’area effetti speciali. Purtroppo quasi mai il valore del totale è eguale alla somma del valore dei singoli coinvolti; il film non convince neanche per un momento. La messa in scena del poco conosciuto Stefen Fangmeier privilegia la spettacolarità e l’azione, concentrando 583 pagine di libro in poco meno di un’ora e quaranta di pellicola, tarpando così le ali al passo da grande storia epica che caratterizza il libro. Fengmeier tenta di trasmetterlo, senza riuscirci, con poche e mal riuscite scene girate con un ampio dolly nella natura più selvaggia.
Ci pensa poi la distribuzione italiana a piazzare l’ultimo chiodo sulla bara di questo film poco riuscito, affidando il doppiaggio della dragonessa Saphira alla, e non ce ne voglia, non professionista Ilaria D’Amico. Il risultato è pessimo e ci fa pensare: la versione originale è doppiata da Rachel Weisz, ottima attrice, fresca di Academy Award, mentre quella italiana è affidata ad una nota giornalista sportiva, bravissima in quello che fa, ma non certamente un’attrice. Cos’abbiamo fatto, quindi, per meritarci una così bassa considerazione da parte della distribuzione? Siamo un così cattivo pubblico? Ai posteri l’ardua, ma neanche poi tanto, sentenza.
Titolo originale: Eragon
Nazione: U.S.A.
Anno: 2006
Genere: Avventura, Fantastico
Durata: 104’
Regia: Stefen Fangmeier
Sito ufficiale: www.eragonmovie.com
Cast: Jeremy Irons, John Malkovich, Edward Speleers, Djimon Hounsou, Robert Carlyle, Alun Armstrong
Produzione: 20th Century Fox, Ingenious Film Partners
Distribuzione: 20th Century Fox
Data di uscita: 22 Dicenbre 2006 (cinema)
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Ralfe Band, Swords
(Cd, Skint Records, 2007)
nu-folk
8/10
Sentire un frontman parlare di quanto la sua band sia influenzata da Dylan, Waits, Sate, Beck o Captain Beefheart non mi fa guardare con troppa fiducia a chi ha pronunciato certe parole. Ma dopo aver ascoltato Swords, album dell'esordiente Ralfe Band, mi sono dovuto ricredere.
Oly Ralfe, Andrew Mitchell e John Greswell compongono la Ralfe Band, big thing londinese grazie ai singoli Albatross Walze e Fifteen Hundred Years che hanno preceduto l'uscita dell'album d'esordio. La critica ha atteso il trio sin dal 2004, anno della prima apparizione pubblica, e nel 2005, firmato un contratto con la Skint Records (la stessa etichetta, tanto per intenderci, di Fatboy Slim e Lo Fidelity All Stars), la prima opera della band ripaga dell'attesa scontata. Le speranze prodotte da questo trio non si sono rivelate semplici illusioni con l'album seguente, Woman of Japan; distribuito nell'aprile 2006, anche il secondo album prosegue sulla scia un po' visionaria ed un po' cantautorale della Band, concedendo spazio a nuove sperimentazioni dal sapore dannatamente vintage.
Costringere in una etichetta un album (ma soprattutto una band) del genere è un po' come cercare di capovolgere velocemente un barattolo pieno di marmellata: puoi essere bravo finché vuoi, ma qualcosa fuori ci scapperà sempre. L'etichetta più comprensiva, nonostante questo, è quella di album nu-folk: le parole sono le stesse del folk vecchia maniera (certo, sentire miscelati quello americano e quello dell'est europeo fa correre un brivido lungo la schiena), ma se tra un accordion ed una viola ci scappa un sintetizzatore i linguaggi sono decisamente moderni. Come dicevamo, un limite del genere non è sufficiente per una band di tale caratura: le atmosfere suscitate vanno al di là del semplice folk, e svelano quale attenzione sia stata dedicata ad una scrittura musicale semplice ma di grande effetto, mosaico di colori ed emozioni. Molto spesso mondi agresti, come esigerebbe la tradizione, ma in continuo movimento, in perpetue involuzioni e rivoluzioni, oggetto di spasmi creativi violenti ed improvvisi. In brani ad ampio respiro come Albatross Walze, un folk in tre quarti in cui la Ralfe Band riesce ad infilare suoni di giocattoli (marchio di fabbrica del gruppo) e chitarre elettriche, o Crow troviamo quelle influenze che Oly imputa all'est europeo. In altri, come Parkbench Blues, a farla da padrona sono le atmosfere, le ambientazioni, create da un'assoluta armonia di strumenti e voce, oppure, in tracce come Bruno Mindhorn, più serrate e veloci, è l'uso di sintetizzatori a tessere le trame del pezzo.
Un ottimo album d'esordio, quindi, per un trio che si è fatto attendere ed ha saputo farsi desiderare, una ventata d'aria fresca sulla scena britannica ed europea. Un'opera godibilissima e frutto di un sapiente lavoro di scrittura e di cesello per una band che di sicuro saprà (e già lo sta facendo) far parlare di sé.
Still Life di Jia Zhang-Ke
Han Sanming compie in nave tutto il viaggio dal Shanxi fino a Fengjie con il solo scopo di ritrovare la figlia che non ha mai visto. L’unico indizio che ha è un pacchetto di sigarette Mango con scritto l’indirizzo della sua ex moglie, la Via del Granito n°5 del sottotitolo. Comincia così il suo peregrinare per la città. Shen Hong è un infermiera della regione dello Shanxi, sposata ad un ingegnere che lavora a Fengjie e che la donna non vede da due anni; con l’aiuto di un vecchio amico del marito riuscirà a rivedere lo stesso, e ad annunciargli la propria decisione a proposito del loro matrimonio.
Han scopre che Via del Granito è stata sommersa dall’acqua nella prima fase di costruzione della diga. Quindi, dovendo prolungare più del previsto la sua ricerca, per riuscire a pagarsi il soggiorno a Fengjie in attesa di trovare moglie e figlia, inizia a lavorare come demolitore; armati di martelli da fabbro, gli operai fanno letteralmente a pezzi quegli edifici che sono stati sfollati perchè saranno sommersi dalle acque imprigionate dalla mastodontica diga delle Tre Gole.
Shen, mano a mano che prosegue con le ricerche, scopre gli altarini del marito, ingegnere a capo del progetto di demolizione della parte della città che verrà sommersa, e viene fuori che il fedifrago la tradisce da molto tempo col suo capo.
Come nelle scatole cinesi, Jia scopre di volta in volta le sue carte; viene fuori che Han è stato abbandonato da una moglie che aveva comprato per 3000 yuan, dopo essere stato scoperto dalle autorità. In Cina infatti, specialmente nelle regioni povere, le donne in eccesso (per così dire), vengono vendute al migliore offerente. Nonostante ciò Han è un marito di molto migliore rispetto a quello di Shen Hong e il finale della sua storia renderà giustizia alla sua bontà, mentre Shen darà il benservito al compagno. Il marito illegittimo ma buono viene perdonato, il marito leggittimo ma fedifrago viene punito.
Jia, primo regista ad avere a Venezia due film, l’uno, Dong, nella categoria Orizzonti questo invece in concorso, prosegue il suo discorso sullo stato della Cina attuale, e lo fa inserendolo nella cornice di due tenere quanto tristi storie d’amore, accomunate dal luogo di svolgimento, la città di Fengjie, più di duemila anni di storia sommersi dalle acque raccolte da un’immane diga.
Jia Zhang-Ke, a Venezia in concorso due anni fa col poco riuscito Shijie, è il secondo regista indipendente per importanza in Cina, dietro all’indiscusso campione e precursore Zhang Juan. Il suo è un cinema fatto di silenzi e di aridità emotiva. Questo lavoro è peculiare in tal senso: sembra che nello stesso modo in cui la città è stata sommersa dall’acqua, così anche il calore dei suoi abitanti è stato ricoperto da strati e strati di progresso. Il tono di critica di Jia è sottile e sussurrato, niente a che vedere con urla sbraitate ed insulti; anche per questo opta per tenere la critica sulla sfondo di due storie d’amore. Questa scelta regala al film più livelli di interpretazione, e regala allo spettatore occidentale un tipo di fruizione più agevole rispetto al puro film di denuncia.
Da ricordare almeno due scene. Nella prima, una Shen Hong pensierosa volge lo sguardo verso lo stupendo panorama delle Tre Gole deturpato da una torre in cemento armato; come a rispondere ai desideri della ragazza, l’orribile torre decolla come farebbe uno shuttle a Cape Canaveral, restituendo agli occhi ed all’anima lo splendido panorama. Nella seconda, Han Sanming, conclusa la sua ricerca, sta per tornare alla miniere della natia Shanxi; sullo sfondo un operaio equilibrista passa da un edificio in demolizione all’altro camminando su un filo sospeso nel vuoto. Jia ci regala questa brillante metafora della Cina del 2006, paese che sta in equilibrio tra antico e moderno, tra conservazione del paesaggio e sviluppo tecnologico. Proprio come un equilibrista, il confine tra il restare in equilibrio e il cadere è molto labile.
Menzione speciale per le sequenze, nella parte centrale del film, che ritraggono la stupenda valle delle Tre Gole. Il regista tratta questi paesaggi quasi con timore reverenziale e con grande rispetto. Il risultato mozza il fiato in gola.
Sanxia haoren (Still Life)
Titolo originale: Sanxia haoren
Nazione: Cina
Anno: 2006
Genere: Documentario
Durata:
Regia: Jia Zhang-Ke
Da www.nonsolocinema.com
Ted Leo & the Pharmacists, Living with the Living
Giunti al loro quinto album, i Ted consolidano la loro fama: band politicamente schierata, ora che l'etichetta è cambiata (Touch 'n' Go Records, dopo la Lookout!, dichiaratasi fallita nel 2006) si spingono ancora più nei territori in fermento dell'indie statunitense, prodotti questa volta da Brendan Canty dei Fugazi. Non estranei ad una certa voglia di sperimentazioni, Ted Leo (voce, chitarra), Dave Lerner (basso), Chris Wilson (batteria) e James Canty (chitarra) con questo album ci vanno piano, rallentano sino a rasentare quasi il pop, per riuscire a risollevarsi con esplosioni di energia indie-punk a brevi tratti.
Come dicevamo, più che da Washington la band sembra provenire da qualche cartolina californiana: di punk ne è rimasto relativamente poco, coperto dalle chitarre acustiche (quelle giuste per cuccare sulla spiaggia) e dai coretti di Leo. L'apertura dell'album è affidata ad una breve overture di batteria e registrazioni campionate, Fourth World War, che dovrebbe in poco più di trenta secondi prepararci a quello che andiamo ad ascoltare. Dopo un preludio così carico ci troviamo di fronte a Son of Cain; l'impegno politico nelle parole è grande, ma le atmosfere da ballata sono troppo vicine per poterci far sperare di trovare qualcosa di anche lontanamente simile ai buoni vecchi Clash. L'andazzo continua, con punte come Who do You Love, brani in cui non possiamo proprio dire sia vivo o redivivo lo spirito punk.
Vere oasi nel buonismo musicale di un tal album sono pezzi come Bomb. Repeat. Bomb. o Annunciation Day/Born on Christmas Day, in cui rabbia e amplificatori esplodono sotto i colpi violenti della voce di Leo. L'opera si sciorina tra tracce reggae-punk (The Unwanted Things) e rock anni '70 (The Lost Brigade), per concludersi finalmente con un brano impegnato: C.I.A.
Se stavate aspettando un album carico di energia contestatrice sono spiacente di deludervi; il cd è un ottimo prodotto, suona bene, ma forse un po' troppo teso al nouveau mainstream indie per essere definito punk. All'ambiente urbano si sostituisce la spiaggia, e alle Convers la ciabattina infradito.
lunedì 2 aprile 2007
Cale & Clapton: una coppia che vale più di un poker
Apprezzavamo Clapton quando, con i nostri baffoni anni settanta, lo ascoltavamo con gli Yardbirds (in realtà solo nel primo album: mollò il gruppo quando il successo era appena all'orizzonte). Lo abbiamo seguito negli anni con i Cream prima, con i Blind Faith e i Derek & The Dominos poi. Sconosciuto invece ai più, complice una decisa misantropia, Cale è stato reso famoso da alcuni rifacimenti di pezzi da lui composti: “After Midnight” e “Cocaine” sono i brani che hanno lanciato al grande pubblico il talento solista di Clapton, il quale, a sua volta, ha mostrato a molti l'attività del bluesman Cale, quarant’ anni di musica per soli tredici album che però valgono tutto il tempo atteso per la pubblicazione.
Qui, nel loro incontro fatto di quattordici tracce di pura emozione i due ripercorrono la storia del blues-rock spaziando agilmente dalle ballate che vi aspettereste di sentire in un polveroso saloon di provincia (Dead End Road) ai ritmi più lounge che il blues possa permettersi (Sporting Life). Reduce dall'insuccesso di “Back Home”, Clapton non rinuncia ad un blues piuttosto easy, appiattito sui gusti del pubblico, e nemmeno l'incontro con il grande vecchio Cale e il suo inconfondibile Tulsa-sound lo redime da questo peccato, se così lo vogliamo considerare. Tracce come Missing Person potrebbero così suonare un poco vuote, ma la perfezione tecnica e l'intesa eccezionale fanno, nonostante tutto, battere il piede e fischiettare il motivetto.
Strabiliante, allo stesso modo, il risultato che i bluesmen riescono a raggiungere duettando nel corso dell'album: in tracce come Heads in Georgia o So Easy due voci così idiosincratiche trovano un'esatta, inimmaginabile intesa, quasi ad abbracciarsi in un vortice melodico che però non snatura le rispettive personalità. Insomma: disco assai valido, certo non rivoluzionario, ma frutto di un incontro che più di così non poteva dirsi così fortunato.
Giulio Cisamolo
Da MusicBoom.it