giovedì 5 aprile 2007

I racconti di Terramare di Goro Miyazaki

Earthsea, terra di maghi e di dragoni, sta poco a poco perdendo il suo Equilibrio. I draghi combattono fra loro, il bestiame si ammala, le messi si guastano, e gli esseri umani stanno a guardare. La colpa è da attribuire a Cob, malvagio mago che, vista la morte troppo da vicino, e deciso ad evitarla a tutti costi, cerca in tutti i modi di trovare il segreto della vita eterna. Questa manifesta volontà di andare contro natura fa rivoltare la Terra nostra Madre contro la metastasi umana.

Ged, meglio noto come Sparviero, di professione Arcimago, vagabonda per le terra di Earthsea alla ricerca di una risposta a tutto ciò che sta accadendo. Sulla strada trova Arren, giovane principe parricida, in fuga dalla città natale con la spada magica della sua famiglia; il ragazzo sembra appartenere all’oscurità, i suoi occhi sono tristi e malinconici, ma dove c’è oscurità c’è il sole, e l’ombra della luce che l’ha abbandonato lo segue ovunque vada. Quando Cob esce allo scoperto con i suoi diabolici piani, l’unica soluzione per Sparviero, Aren e Therren, scontrosa e spaurita ragazza salvata dalle grinfie dei negrieri dal giovane principe, è di affrontare il malvagio negromante in uno scontro frontale.

Risulta terribilmente difficile giudicare l’operato cinematografico del figlio di uno dei più grandi filmmaker contemporanei, ma è esattamente ciò che andiamo a fare.

Una quantità eccezionale di carne al fuoco caratterizza questa splendida opera prima. Goro insiste con tenacia e passionalità su un tema tanto vasto quanto fondamentale: non c’è vita senza morte, bisogna quindi accettare l’esistenza della nera signora, e vivere l’unica vita che ci spetta appieno, per non dover fronteggiare alla fine dei nostri giorni remore o rimpianti; per fare ciò è necessario non avere paura della morte, anche se certo, un po’ di timore reverenziale è più che consigliabile, ma sopra tutto e tutti non avere paura della vita. Solo chi ha paura della vita cerca la chimera della vita eterna; vita eterna è uguale assenza di morte che è uguale ad assenza di vita. Non c’è Ying senza Yang, non luce senza tenebra, non c’è donna senza uomo, non c’è vita senza morte.

Un film di straordinaria fattura, oltre che di straordinario spunto, grazie al supporto dell’infallibile Studio Ghibli che, altro che Pixar, non ne sbaglia veramente una. Goro, esordiente assoluto, dimostra di saperci fare specialmente a livello narrativo. Centellina le informazioni su questa terra sconosciuta, incuriosendo lo spettatore man mano che il film prosegue. Lo incatena alla poltrona in un finale, è finalmente ora di dirlo, degno del padre. Caratterizza con maestria il personaggio di Arren, il più profondo e sfaccettato con la sua dicotomia che si risolve anche a livello grafico. A livello tecnico una scena su tutte merita menzione: la soggettiva finale sul volo in picchiata del drago che, pur durando pochi secondi, fa accaponare la pelle.



Titolo originale: Gedo Senki
Nazione: Giappone
Anno: 2006
Genere: Animazione
Durata: 115’
Regia: Goro Miyazaki
Sito ufficiale: www.ghibli.jp/ged
Produzione: Studio Ghibli
Distribuzione: Buena Vista International, NTV, Studio Ghibli, Toho Company Ltd
Data di uscita: Venezia 2006

Da www.nonsolocinema.com

mercoledì 4 aprile 2007

The Melvins, (A) Senile Animal

Un duo che però è un trio, formato da almeno una decina di persone. Il duo è quello di Buzz Osborne (voce e chitarra) e Dale Crover (batteria). Ci sarebbe pure un Jaden Warren al basso (il trio), ma non fateci troppo caso, i bassisti nei The Melvins non durano di solito più di un lustro (le restanti sette persone). Aggiungete ai tre eccezionalmente una seconda batteria (dietro la quale sta seduto Coady Willis) e sarete pronti per ascoltare “(A) Senile Animal”.

Nati nel 1986, influenzati dal hard core punk, dal metal di Ozzy, contaminatori del grunge di Seattle e dei Nirvana, dopo 20 anni di attività e di rispettabile sludge metal, i The Melvins mi fanno gridare al desert-rock dei Kyuss, e al loro compatto e secco muro di chitarre.
Secondo parte della critica “(A) Senile Animal” è il disco che annuncia in pompa magna il ritorno della band dal lontano “Bullhead” (1991); secondo altri, e il sottoscritto sottoscrive, con questo album i Melvins arrivano a qualcosa di nuovo, diverso dallo sludge per il quale sono celebri e dalle indigeste sperimentazioni noise o doom. La compattezza del suono è la stessa, paurosamente solida e regolare, ma si sente qualcosa mancare al di là di questo “muro”; le tracce potrebbero essere prese tranquillamente da un “Ozma” (1989) o da un “Houdini” (1993), ma mancano di mordente, forse un po' troppo “pettinate” dagli anni trascorsi. La voglia di innovare, caratteristica endemica della band tuttavia non viene meno: le voci ora si alternano (grazie a Warren, ex Karp e Tight Bros From Way Back When), mentre la batteria si sdoppia con la comparsata di Willis, già The Murder City Devils.
L'album si apre con The Talking Horse, un pugno allo stomaco di basso distorto e variazioni sul tema. Più compassato e regolare, invece, segue Blood Witch, in cui ci accorgiamo che le batterie sono due, per lo più in sincrono perfetto, che si fanno scorgere in piccoli squarci durante la traccia. Dalla prosa di decisamente più ampio respiro è invece Civilized Worm, energia lisergica o acido energico, a Voi l'ardua sentenza: come le due batterie ora anche le voci vanno di pari passo, raddoppiando l'impatto e l'esplosione al suolo, fino a culminare nell'assolo caotico e irregolare che conclude il brano. Insieme a quest'ultima The Hawk è la traccia bandiera di “(A) Senile Animal”: basso energico ed imprevedibile, batterie che contraggono matrimonio, chitarra importante ma non predominante, voci che ora si alternano ora si raddoppiano.
Se stavate aspettando questo album non abbiate timore, le vostre speranze non saranno disattese: energia pura allo stato fonico. Se invece ora siete curiosi di sentire questo cd avvertite i vicini deboli di cuore, non potrete fare a meno di alzare al massimo il volume del vostro stereo.

Da www.musicboom.it

Eragon di Stefen Fangmeier

Giusto per sottolineare che questo schifo di film alla fine l'ho recensito per davvero. ;)



Eragon è un diciassettenne orfano; vive con lo zio ed il cugino Roran ai margini di Carvahall, piccolo villaggio ai confini del vasto impero di Alagaesia. Tutto sembra scorrere liscio, almeno fino a quando Eragon, a caccia di cervi, non rinviene una strana pietra blu che scoprirà, alla sua schiusura, essere l’uovo dell’ultimo drago, o meglio dragonessa, rimasto. Il malvagio re di Alagaesia, nonchè ultimo cavaliere dei draghi vivente, nonchè assassino di tutti gli altri cavalieri, venuto a conoscenza della nascita della dragonessa Saphira sguinzaglierà sulle traccie di Eragon il terribile Durza, potentissimo stregone nero. L’unica via di scampo per il giovane sarà seguire Brom, cavaliere in pensione, in una folle fuga verso il rifugio dei Varden, i ribelli dell’impero.

Anno di grazia 2002, un noto giallista americano, Carl Hiaasen, accontenta il figlioletto e legge l’opera di un quindicenne del Montana, autoprodotta e autodistribuita in cinquecento copie dai genitori dello stesso. Lo scrittore, rimasto folgorato dal lavoro dell’adolescente, al secolo Christopher Paolini, convincerà il suo editore a farlo pubblicare. La stampa mondiale, non credendo ai propri occhi e a tanta grazia, non poteva lasciarsi sfuggire la storia di un quindicenne al top delle classifiche di vendita mondiali, e lo ha reso l’evento mediatico dell’anno. Neanche a Hollywood sembrava vero, e la Fox si è accaparrata i diritti del libro.

Ora, Eragon, inteso come libro, è palesemente il lavoro di un gran lettore di fantasy, collezione di citazioni più o meno vaghe dai capisaldi del genere. Giova ricordare che è anche l’opera di un quindicenne, con tutti i pregi e i difetti derivanti dall’avere quell’età: passione, tanto cuore, ma anche ingenuità e inesperienza. Dunque questo è l’Eragon cartaceo: adolescenziale, ma non per questo privo di fascino e di un incipiente afflato epico che caratterizza i migliori lavori del genere fantasy.

L’Eragon di celluloide, quindi, raccoglie suo malgrado l’eredità di instabilità della versione cartacea, tentando di volgere a proprio favore i difetti del libro. Per fare ciò si munisce di un cast di tutto rispetto (Jeremy Irons, Robert Carlyle, John Malkovich e la voce di Rachel Weisz) e di un dispiego di forze ingenti per quanto riguarda l’area effetti speciali. Purtroppo quasi mai il valore del totale è eguale alla somma del valore dei singoli coinvolti; il film non convince neanche per un momento. La messa in scena del poco conosciuto Stefen Fangmeier privilegia la spettacolarità e l’azione, concentrando 583 pagine di libro in poco meno di un’ora e quaranta di pellicola, tarpando così le ali al passo da grande storia epica che caratterizza il libro. Fengmeier tenta di trasmetterlo, senza riuscirci, con poche e mal riuscite scene girate con un ampio dolly nella natura più selvaggia.

Ci pensa poi la distribuzione italiana a piazzare l’ultimo chiodo sulla bara di questo film poco riuscito, affidando il doppiaggio della dragonessa Saphira alla, e non ce ne voglia, non professionista Ilaria D’Amico. Il risultato è pessimo e ci fa pensare: la versione originale è doppiata da Rachel Weisz, ottima attrice, fresca di Academy Award, mentre quella italiana è affidata ad una nota giornalista sportiva, bravissima in quello che fa, ma non certamente un’attrice. Cos’abbiamo fatto, quindi, per meritarci una così bassa considerazione da parte della distribuzione? Siamo un così cattivo pubblico? Ai posteri l’ardua, ma neanche poi tanto, sentenza.


Titolo originale: Eragon
Nazione: U.S.A.
Anno: 2006
Genere: Avventura, Fantastico
Durata: 104’
Regia: Stefen Fangmeier
Sito ufficiale: www.eragonmovie.com
Cast: Jeremy Irons, John Malkovich, Edward Speleers, Djimon Hounsou, Robert Carlyle, Alun Armstrong
Produzione: 20th Century Fox, Ingenious Film Partners
Distribuzione: 20th Century Fox
Data di uscita: 22 Dicenbre 2006 (cinema)


Da www.nonsolocinema.com

Ralfe Band, Swords

Swords, album d'esordio del trio britannico Ralfe Band, porta il folk europeo a nuovi livelli di sperimentazione vintage, tracciando un solco nella musica contemporanea occidentale.

(Cd, Skint Records, 2007)

nu-folk

8/10


Sentire un frontman parlare di quanto la sua band sia influenzata da Dylan, Waits, Sate, Beck o Captain Beefheart non mi fa guardare con troppa fiducia a chi ha pronunciato certe parole. Ma dopo aver ascoltato Swords, album dell'esordiente Ralfe Band, mi sono dovuto ricredere.

Oly Ralfe, Andrew Mitchell e John Greswell compongono la Ralfe Band, big thing londinese grazie ai singoli Albatross Walze e Fifteen Hundred Years che hanno preceduto l'uscita dell'album d'esordio. La critica ha atteso il trio sin dal 2004, anno della prima apparizione pubblica, e nel 2005, firmato un contratto con la Skint Records (la stessa etichetta, tanto per intenderci, di Fatboy Slim e Lo Fidelity All Stars), la prima opera della band ripaga dell'attesa scontata. Le speranze prodotte da questo trio non si sono rivelate semplici illusioni con l'album seguente, Woman of Japan; distribuito nell'aprile 2006, anche il secondo album prosegue sulla scia un po' visionaria ed un po' cantautorale della Band, concedendo spazio a nuove sperimentazioni dal sapore dannatamente vintage.

Costringere in una etichetta un album (ma soprattutto una band) del genere è un po' come cercare di capovolgere velocemente un barattolo pieno di marmellata: puoi essere bravo finché vuoi, ma qualcosa fuori ci scapperà sempre. L'etichetta più comprensiva, nonostante questo, è quella di album nu-folk: le parole sono le stesse del folk vecchia maniera (certo, sentire miscelati quello americano e quello dell'est europeo fa correre un brivido lungo la schiena), ma se tra un accordion ed una viola ci scappa un sintetizzatore i linguaggi sono decisamente moderni. Come dicevamo, un limite del genere non è sufficiente per una band di tale caratura: le atmosfere suscitate vanno al di là del semplice folk, e svelano quale attenzione sia stata dedicata ad una scrittura musicale semplice ma di grande effetto, mosaico di colori ed emozioni. Molto spesso mondi agresti, come esigerebbe la tradizione, ma in continuo movimento, in perpetue involuzioni e rivoluzioni, oggetto di spasmi creativi violenti ed improvvisi. In brani ad ampio respiro come Albatross Walze, un folk in tre quarti in cui la Ralfe Band riesce ad infilare suoni di giocattoli (marchio di fabbrica del gruppo) e chitarre elettriche, o Crow troviamo quelle influenze che Oly imputa all'est europeo. In altri, come Parkbench Blues, a farla da padrona sono le atmosfere, le ambientazioni, create da un'assoluta armonia di strumenti e voce, oppure, in tracce come Bruno Mindhorn, più serrate e veloci, è l'uso di sintetizzatori a tessere le trame del pezzo.

Un ottimo album d'esordio, quindi, per un trio che si è fatto attendere ed ha saputo farsi desiderare, una ventata d'aria fresca sulla scena britannica ed europea. Un'opera godibilissima e frutto di un sapiente lavoro di scrittura e di cesello per una band che di sicuro saprà (e già lo sta facendo) far parlare di sé.

Di Giulio Cisamolo

Still Life di Jia Zhang-Ke

VIA DEL GRANITO N°5

Han Sanming compie in nave tutto il viaggio dal Shanxi fino a Fengjie con il solo scopo di ritrovare la figlia che non ha mai visto. L’unico indizio che ha è un pacchetto di sigarette Mango con scritto l’indirizzo della sua ex moglie, la Via del Granito n°5 del sottotitolo. Comincia così il suo peregrinare per la città. Shen Hong è un infermiera della regione dello Shanxi, sposata ad un ingegnere che lavora a Fengjie e che la donna non vede da due anni; con l’aiuto di un vecchio amico del marito riuscirà a rivedere lo stesso, e ad annunciargli la propria decisione a proposito del loro matrimonio.

Han scopre che Via del Granito è stata sommersa dall’acqua nella prima fase di costruzione della diga. Quindi, dovendo prolungare più del previsto la sua ricerca, per riuscire a pagarsi il soggiorno a Fengjie in attesa di trovare moglie e figlia, inizia a lavorare come demolitore; armati di martelli da fabbro, gli operai fanno letteralmente a pezzi quegli edifici che sono stati sfollati perchè saranno sommersi dalle acque imprigionate dalla mastodontica diga delle Tre Gole.
Shen, mano a mano che prosegue con le ricerche, scopre gli altarini del marito, ingegnere a capo del progetto di demolizione della parte della città che verrà sommersa, e viene fuori che il fedifrago la tradisce da molto tempo col suo capo.

Come nelle scatole cinesi, Jia scopre di volta in volta le sue carte; viene fuori che Han è stato abbandonato da una moglie che aveva comprato per 3000 yuan, dopo essere stato scoperto dalle autorità. In Cina infatti, specialmente nelle regioni povere, le donne in eccesso (per così dire), vengono vendute al migliore offerente. Nonostante ciò Han è un marito di molto migliore rispetto a quello di Shen Hong e il finale della sua storia renderà giustizia alla sua bontà, mentre Shen darà il benservito al compagno. Il marito illegittimo ma buono viene perdonato, il marito leggittimo ma fedifrago viene punito.

Jia, primo regista ad avere a Venezia due film, l’uno, Dong, nella categoria Orizzonti questo invece in concorso, prosegue il suo discorso sullo stato della Cina attuale, e lo fa inserendolo nella cornice di due tenere quanto tristi storie d’amore, accomunate dal luogo di svolgimento, la città di Fengjie, più di duemila anni di storia sommersi dalle acque raccolte da un’immane diga.
Jia Zhang-Ke, a Venezia in concorso due anni fa col poco riuscito Shijie, è il secondo regista indipendente per importanza in Cina, dietro all’indiscusso campione e precursore Zhang Juan. Il suo è un cinema fatto di silenzi e di aridità emotiva. Questo lavoro è peculiare in tal senso: sembra che nello stesso modo in cui la città è stata sommersa dall’acqua, così anche il calore dei suoi abitanti è stato ricoperto da strati e strati di progresso. Il tono di critica di Jia è sottile e sussurrato, niente a che vedere con urla sbraitate ed insulti; anche per questo opta per tenere la critica sulla sfondo di due storie d’amore. Questa scelta regala al film più livelli di interpretazione, e regala allo spettatore occidentale un tipo di fruizione più agevole rispetto al puro film di denuncia.

Da ricordare almeno due scene. Nella prima, una Shen Hong pensierosa volge lo sguardo verso lo stupendo panorama delle Tre Gole deturpato da una torre in cemento armato; come a rispondere ai desideri della ragazza, l’orribile torre decolla come farebbe uno shuttle a Cape Canaveral, restituendo agli occhi ed all’anima lo splendido panorama. Nella seconda, Han Sanming, conclusa la sua ricerca, sta per tornare alla miniere della natia Shanxi; sullo sfondo un operaio equilibrista passa da un edificio in demolizione all’altro camminando su un filo sospeso nel vuoto. Jia ci regala questa brillante metafora della Cina del 2006, paese che sta in equilibrio tra antico e moderno, tra conservazione del paesaggio e sviluppo tecnologico. Proprio come un equilibrista, il confine tra il restare in equilibrio e il cadere è molto labile.
Menzione speciale per le sequenze, nella parte centrale del film, che ritraggono la stupenda valle delle Tre Gole. Il regista tratta questi paesaggi quasi con timore reverenziale e con grande rispetto. Il risultato mozza il fiato in gola.

Sanxia haoren (Still Life)
Titolo originale: Sanxia haoren
Nazione: Cina
Anno: 2006
Genere: Documentario
Durata:
Regia: Jia Zhang-Ke


Da www.nonsolocinema.com

Ted Leo & the Pharmacists, Living with the Living

I Ted Leo & The Pharmacists sono una band indie-punk, nata nel 1999 a Washington, District of Columbia, i cui componenti ad oggi provengono un po' da tutto il nord statunitense. Strano, davvero strano, per un album che ti fa sentire come fosse già luglio, il sole a picco e la spiaggia piena di ragazze.

Giunti al loro quinto album, i Ted consolidano la loro fama: band politicamente schierata, ora che l'etichetta è cambiata (Touch 'n' Go Records, dopo la Lookout!, dichiaratasi fallita nel 2006) si spingono ancora più nei territori in fermento dell'indie statunitense, prodotti questa volta da Brendan Canty dei Fugazi. Non estranei ad una certa voglia di sperimentazioni, Ted Leo (voce, chitarra), Dave Lerner (basso), Chris Wilson (batteria) e James Canty (chitarra) con questo album ci vanno piano, rallentano sino a rasentare quasi il pop, per riuscire a risollevarsi con esplosioni di energia indie-punk a brevi tratti.

Come dicevamo, più che da Washington la band sembra provenire da qualche cartolina californiana: di punk ne è rimasto relativamente poco, coperto dalle chitarre acustiche (quelle giuste per cuccare sulla spiaggia) e dai coretti di Leo. L'apertura dell'album è affidata ad una breve overture di batteria e registrazioni campionate, Fourth World War, che dovrebbe in poco più di trenta secondi prepararci a quello che andiamo ad ascoltare. Dopo un preludio così carico ci troviamo di fronte a Son of Cain; l'impegno politico nelle parole è grande, ma le atmosfere da ballata sono troppo vicine per poterci far sperare di trovare qualcosa di anche lontanamente simile ai buoni vecchi Clash. L'andazzo continua, con punte come Who do You Love, brani in cui non possiamo proprio dire sia vivo o redivivo lo spirito punk.
Vere oasi nel buonismo musicale di un tal album sono pezzi come Bomb. Repeat. Bomb. o Annunciation Day/Born on Christmas Day, in cui rabbia e amplificatori esplodono sotto i colpi violenti della voce di Leo. L'opera si sciorina tra tracce reggae-punk (The Unwanted Things) e rock anni '70 (The Lost Brigade), per concludersi finalmente con un brano impegnato: C.I.A.

Se stavate aspettando un album carico di energia contestatrice sono spiacente di deludervi; il cd è un ottimo prodotto, suona bene, ma forse un po' troppo teso al nouveau mainstream indie per essere definito punk. All'ambiente urbano si sostituisce la spiaggia, e alle Convers la ciabattina infradito.

lunedì 2 aprile 2007

Cale & Clapton: una coppia che vale più di un poker

Cosa succede quando due chitarre che hanno scritto la storia del blues si incontrano? Semplice: producono un gran bel disco. Dopo oltre trent’anni passati a guardarsi con la coda dell'occhio e ad essere fonte di ispirazione l'uno per l'altro, J.J. Cale ed Eric Clapton decidono finalmente di collaborare ad un album, “Road to Escondido”, dedicato alla memoria di Billy Preston e di Brian Roylance, amici intimi di Clapton.

Apprezzavamo Clapton quando, con i nostri baffoni anni settanta, lo ascoltavamo con gli Yardbirds (in realtà solo nel primo album: mollò il gruppo quando il successo era appena all'orizzonte). Lo abbiamo seguito negli anni con i Cream prima, con i Blind Faith e i Derek & The Dominos poi. Sconosciuto invece ai più, complice una decisa misantropia, Cale è stato reso famoso da alcuni rifacimenti di pezzi da lui composti: “After Midnight” e “Cocaine” sono i brani che hanno lanciato al grande pubblico il talento solista di Clapton, il quale, a sua volta, ha mostrato a molti l'attività del bluesman Cale, quarant’ anni di musica per soli tredici album che però valgono tutto il tempo atteso per la pubblicazione.

Qui, nel loro incontro fatto di quattordici tracce di pura emozione i due ripercorrono la storia del blues-rock spaziando agilmente dalle ballate che vi aspettereste di sentire in un polveroso saloon di provincia (Dead End Road) ai ritmi più lounge che il blues possa permettersi (Sporting Life). Reduce dall'insuccesso di “Back Home”, Clapton non rinuncia ad un blues piuttosto easy, appiattito sui gusti del pubblico, e nemmeno l'incontro con il grande vecchio Cale e il suo inconfondibile Tulsa-sound lo redime da questo peccato, se così lo vogliamo considerare. Tracce come Missing Person potrebbero così suonare un poco vuote, ma la perfezione tecnica e l'intesa eccezionale fanno, nonostante tutto, battere il piede e fischiettare il motivetto.
Strabiliante, allo stesso modo, il risultato che i bluesmen riescono a raggiungere duettando nel corso dell'album: in tracce come Heads in Georgia o So Easy due voci così idiosincratiche trovano un'esatta, inimmaginabile intesa, quasi ad abbracciarsi in un vortice melodico che però non snatura le rispettive personalità. Insomma: disco assai valido, certo non rivoluzionario, ma frutto di un incontro che più di così non poteva dirsi così fortunato.

Giulio Cisamolo

Da MusicBoom.it